Istantanea Pier Vittorio Buffa

Piccoli Comuni crescono

Il commissario straordinario per la revisione della spesa pubblica, Carlo Cottarelli, è stato esplicito e, non per colpa sua, ovvio. Ascoltato dalla commissione tributaria della Camera dei deputati ha detto quello che si sa da sempre: i Comuni italiani sono troppi e vanno accorpati, fusi.

Nel nostro paese ce ne sono ancora con 30-40-60 abitanti, e con tanto di sindaco e assessori. In molte realtà già si stanno percorrendo, più che altro spinti da problemi di bilancio, strade di collaborazione e integrazione. Altrove si resta arroccati nel proprio particolare. Cottarelli indica un percorso sano: creare un meccanismo di incentivi per favorire la fusione di Comuni e dare quindi vita a entità più efficienti ed economiche.

Cosa si aspetta a passare a fatti concreti? A definire cioè un quadro preciso che spinga, direi quasi costringa, le amministrazioni dei Comuni più piccoli ad avviare rapidamente i processi di fusione? Non se ne avrebbero solo risparmi, ma , rispettando l'identità delle singole comunità, anche una maggiore efficienza amministrativa. E i piccoli Comuni non sparirebbero ma, quasi paradossalmente, crescerebbero.

L'orgoglio di sopravvivere

 

SUSAN G. KOMEN RACE FOR THE CURE ST. LOUIS

 

Sono a Boston e domenica mattina sono andato a fare una passeggiata. C'era una vera e propria fiumana di gente, migliaia e migliaia di persone, dalla quale mi sono lasciato travolgere, nella quale mi sono immerso. Erano uomini, donne, tante donne, ragazzi, ragazze, tante ragazze che camminavano, vestiti soprattutto di rosa, per sostenere la lotta contro il cancro al seno. Tra di loro alcune portavano una fascia rosa pallido con su scritto "Survivor", sopravvissuta al cancro. La portavano con evidente orgoglio, guardandosi intorno, rispondendo con il sorriso a chi le fermava per far loro una domanda.

Alcune mie amiche, anche molto care, hanno combattuto la stessa battaglia. Me ne hanno parlato con pudore, magari dopo del tempo. Ma tutte con la stessa luce negli occhi: la voglia di vivere e di raccontare che, anche se il cancro ti attacca, si può e si deve continuare a vivere.

Ecco, quelle fasce da "Survivor" si muovevano sul lungo fiume e sui ponti di Boston proprio per urlare questo.

"In America", mi ha detto una mia amica "sopravvissuta", "i cancer survivor vengono vissuti come degli eroi, in Italia si parla ancora di 'male incurabile'... capisci gli anni luce di differenza?".

"Pensa che bello", ha aggiunto, "se anche noi, tutte insieme,  si sfilasse per le nostre strade con una fascia con su scritto 'Sopravvissuta'. Che esempio per chi scopre all'improvviso di avere la bestia dentro, che forza straordinaria ne ricaverebbe".

Guardiamo e ricordiamoci


Guardiamo questo straordinario documento (realizzato da H24, idea di Mauro Parissone, regia di Roberto Burchielli, per Rai Fiction con Corriere della Sera e Marina Militare).
Guardiamolo con la maggiore attenzione di cui siamo capaci.
E ricordiamoci di tornarlo a guardare ogni volta che ci sorprendiamo, anche nostro malgrado, a passare oltre quando leggiamo o ascoltiamo di bambini, donne e uomini che annegano mentre cercano, semplicemente, una vita dignitosa.

Cefalonia, fu vero crimine

stork

Una notizia, qualche giorno fa, è passata praticamente inosservata. Una di quelle notizie che possono sembrare di poca importanza o per addetti ai lavori e che invece segnano importanti svolte della storia.

L'ex caporale della Wehrmacht Alfred Stork (nella foto)  ha rinunciato all'appello contro la sentenza che lo condanna all'ergastolo per aver partecipato all'eccidio di Cefalonia, nel settembre 1943. Quindi la sentenza contro di lui è destinata a essere, a breve, dichiarata definitiva.

Che importanza può avere, più di settant'anni dopo, una sentenza definitiva contro un ultranovantenne? Che rilevanza storica può avere l'accertamento che proprio lui abbia partecipato all'eccidio degli ufficiali italiani alla Casetta Rossa?

Molta, molta importanza.

Il passaggio in giudicato di questa sentenza, emessa da un tribunale militare che ha attentamente vagliato i fatti, significa che anche da un punto di vista giuridico, non solo storico, si potrà dire che lì, a Cefalonia, non c'è stata solo battaglia ma che dai nazisti è stato commesso un grande, efferato crimine di guerra.

E che lì, a Cefalonia, c'è stato davvero uno dei primi, importanti atti di resistenza degli italiani al nazismo, come lo definì l'allora presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi.

Leggi:

La confessione di Alfred Stork

La sentenza del tribunale militare di Roma

L'Ucraina è terra anche nostra

craina. Belovodsk, Gamashewka, Kononovo, Bondarowka

craina. Belovodsk, Gamashewka, Kononovo, Bondarowka

In Ucraina orientale, nemmeno cento chilometri a nord della zona dove si combatte e si muore, c'è questo cimitero-monumento. E' dedicato ai soldati russi, ucraini, kazaki... ai soldati sovietici, insomma, che vennero uccisi mentre, nell'inverno 1942-43, difendevano il loro paese dagli invasori: tedeschi, italiani, rumeni...
Una decina di anni fa andai là, a Kurjatsckjewka, sulle tracce del reparto dell'Armir (Armata italiana in Russia) in cui aveva combattuto mio padre.

Camminai su quelle pietre bagnate leggendo le centinaia di nomi impressi sulle lapidi, avendo dentro di me gli scarni e sofferti racconti paterni, rivedendo l'"isba della pace" raccontata da Mario Rigoni Stern.

In quel silenzio tutto sembrava tornare a posto. L'Unione Sovietica era sparita da tempo, quel carro armato era come dicesse mai più tutto quel sangue su questa terra, le case dove mi fermai a parlare erano semplici e pulite, serene.

Ricordo con precisione i miei pensieri di quei giorni. Ero così immerso nel ricordo della morte e delle sofferenza che pensai di trovarmi in una sorta di porto franco. Qui, dissi a me stesso e ai miei compagni di viaggio, sarà pace per i secoli a venire. Chi può più volere questa terra? Chi vorrà più uccidere questa gente? Chi la costringerà ancora una volta a dare la propria vita per difendere i propri campi e i propri figli?

Dieci anni, nemmeno dieci anni, e quei pensieri di allora sono diventati sogni distrutti da un risveglio brusco.

Però mi piacerebbe che, dentro di me, restasse almeno un filo di quel sogno. E mi piacerebbe passarlo a più persone possibile.

Il sogno è che si riesca a sentire un po' nostra, e quindi a volerla in pace, quella terra dove anche i nostri padri e  i nostri nonni sono morti e hanno portato morte.

Il brivido

Ho letto e riletto il testo di riforma costituzionale approvato dal Senato.

Riga dopo riga ho percepito materialmente, toccandola quasi, la portata storica di quello che stavo leggendo. Se arriveranno alla loro approvazione definitiva quelle righe, quelle parole sanciranno davvero il passaggio dalla Repubblica nata nel 1946 (o nel 1948 se si vuole considerare l'entrata in vigore della Costituzione) a una Seconda Repubblica basata su un diverso Parlamento,  un diverso sistema di formazione delle leggi, un diverso equilibrio tra i poteri dello Stato.

Nel testo finale ho ritrovato tutti quelli che, secondo me, sono difetti rilevanti del nuovo impianto e sui quali abbiamo più volte ragionato. Senza tornare sugli importanti dettagli possiamo riassumerli in un'unica generale considerazione: la Seconda Repubblica rischia di nascere senza quell'equilibrio tra poteri che è essenziale quando si da maggior forza al potere esecutivo.

Ma leggendo e rileggendo ho anche provato un brivido.

Riga dopo riga ripassavano nel retro del mio cervello le cronache di questi primi giorni di agosto, la battaglia al Senato, perché di vera battaglia si è trattato, per arrivare all'approvazione, gli insulti, i feriti. E vedevo il terribile contrasto tra la portata storica di quello che si andava discutendo e le ruvide modalità del confronto parlamentare.

Quando il ragionamento viene schiacciato dall'esigenza di ottenere comunque un risultato il rischio del clamoroso errore è elevato, molto elevato. Per questo il brivido, un brivido di paura.

Auguriamoci allora che questi giorni di pausa estiva servano a far riflettere i vincitori, a far analizzare meglio le ragioni di chi si è opposto e si oppone a molte parti di questa riforma. Per arrivare alla Camera dei deputati con quei significativi ritocchi che possono solo rafforzare le fondamenta di una Seconda Repubblica di cui abbiamo davvero bisogno.

Autoritarismo e riforma costituzionale

L'articolo 16 del disegno di legge di riforma della Costituzione presentato dal governo  e in discussione al Senato dice testualmente: "(Inchieste parlamentari) 1. All'articolo 82, primo comma, della Costituzione, le parole: «Ciascuna Camera» sono sostituite dalle seguenti: «La Camera dei deputati»". Se questo testo venisse approvato l'articolo 82 della Costituzione diventerebbe così: " La Camera dei deputati può disporre inchieste su materie di pubblico interesse. A tale scopo nomina fra i propri componenti una commissione formata in modo da rispecchiare la proporzione dei vari gruppi. La commissione di inchiesta procede alle indagini e agli esami con gli stessi poteri e le stesse limitazioni dell'Autorità giudiziaria". La modifica poi approvata in commissione che affida al Senato "inchieste su materie di pubblico interesse concernenti le autonomie territoriali", sposta di poco la questione. Perché questo delle commissioni d'inchiesta  è uno degli esempi che autorizzano a definire la riforma proposta dal governo una riforma non equilibrata e, in qualche modo, "autoritaria".

La nuova Camera si formerà grazie a un premio di maggioranza che, correttamente, forzerà la volontà popolare e garantirà stabilità. La stessa Camera darà, da sola e correttamente, la fiducia al governo. La stessa Camera approverà le leggi. La stessa Camera, con l'aggiunta dei senatori "non eletti" e percentualmente non particolarmente influenti (un centinaio su oltre 600 deputati), eleggerà il presidente della Repubblica. La stessa maggioranza che governa la Camera e ha eletto il presidente della Repubblica nominerà otto giudici costituzionali su quindici e, quindi, avrà il controllo della Suprema Corte. La stessa maggioranza infine, e stando al nostro esempio, controllerà le commissioni di inchiesta "con gli stessi poteri e limitazioni dell'autorità giudiziaria".

Per dirla in altro modo: se la stessa maggioranza vince due elezioni consecutive e si aggiudica il "premio" avrà in mano tutte le leve fondamentali del paese: governo, presidenza della Repubblica, Corte costituzionale... e commissioni di inchiesta.

Questo è il pericolo autoritario di cui si parla. Questa è la ragione per cui sarebbe bene che la riforma costituzionale proposta dal governo  non vedesse la luce così com'è.

Per garantire i due principi base (governabilità e riduzione del numero dei parlamentari) sarebbero sufficienti l'abolizione del bicameralismo e la riduzione del numero di deputati e senatori (400 e 100, per esempio).

La funzione di garanzia del presidente della Repubblica potrebbe essere essere rafforzata allargando la base elettorale ai rappresentanti delle autonomie ancor più di quanto sia adesso.

Un senato composto da cento senatori eletti ma non rieleggibili potrebbe avere un peso maggiore nella nomina dei giudici costituzionali e svolgere quelle forti funzioni di controllo (come le commissioni di inchiesta, ma non solo) indispensabili per un corretto funzionamento di una democrazia che dà forti poteri all'esecutivo.

Della riabilitazione e della memoria

Tre considerazioni sulla sentenza della Corte d'appello di Milano che ha assolto l'ex cavaliere del lavoro Berlusconi Silvio.

1. Che una sentenza di secondo grado ribalti quella di primo grado costituisce una prova di vitalità della giustizia, di autonomia reale dei giudici. Se non ci sono, come spero davvero non ci siano, interferenze di altro tipo, la sentenza sul caso Ruby smonta dalle fondamenta tutte le tesi di complotto e persecuzione che hanno avvelenato questi anni. E rinforza i due principi cardine sui quali si basa il nostro sistema penale. L'azione penale è obbligatoria, nessun deve essere considerato colpevole sino alla passaggio in giudicato.

2. I fatti accaduti restano, per quello che se ne sa, incontrovertibili. L'allora presidente del Consiglio chiamò la questura per chiedere che una ragazza fermata venisse rilasciata e consegnata a donna di propria fiducia spacciata per consigliere ministeriale. Questa ragazza, la famosa Ruby che all'epoca dei fatti era minorenne, ha fatto sesso a pagamento presso la residenza del presidente del consiglio in carica. I giudici hanno stabilito che questi fatti non costituiscono reato. Bisognerà attendere le motivazioni della sentenza, ma l'ipotesi più probabile è che le ragioni siano in una diversa definizione della concussione stabilita dalla famosa legge Severino  e dalla non provata conoscenza, da parte dell'imputato, che la ragazza fosse minorenne. La sentenza, dunque, non modifica di una virgola la sostanza dei comportamenti tenuti dall'allora presidente del Consiglio.

3. Una lettura superficiale dell'accaduto sta portando a una sorta di riabilitazione politica di un uomo che, già capo del governo del nostro paese, sta scontando una pena comminatagli in via definitiva per frode fiscale ed è ancora imputato in un buon numero di processi. No, per favore, non si cada in una trappola del genere. Berlusconi Silvio è sempre lo stesso: quello di oggi, di ieri, dell'altro ieri, di dieci anni fa, di vent'anni fa. E' bene ricordarlo perché a leggere affermazioni come quelle della vice segretaria del Pd, Deborah Serracchiani ("Berlusconi è sempre il benvenuto"), sembra davvero che la memoria, in tutti i sensi, stia diventando un bene sempre più raro.

PS (21-7-2014). Ho definito Berlusconi Silvio "ex cavaliere del lavoro" immaginando che ci fosse stato un seguito formale alle sue dichiarazioni di autosospensione. In realtà, come spiega bene questo articolo de Linkiesta e come si può verificare sul sito del Quirinale Berlusconi Silvio è ancora cavaliere del Lavoro perché chi deve provvedere (ministero dello Sviluppo e presidenza della Repubblica) non ha provveduto. Per quel che mi riguarda, quindi, da oggi, se mi capiterà, chiamerò Berlusconi Silvio "sedicente ex cavaliere del lavoro". E ringrazio l'amico e collega Francesco Bardaro Grella che, tramite Facebook, mi ha segnalato la questione.

Condividere la memoria

Un mese fa è andato online il sito "Grande Guerra, i diari raccontano", di cui avevo parlato in questo post.

Da allora, all'indirizzo mail appositamente creato, sono arrivate numerose segnalazioni. Nipoti e pronipoti dei combattenti di un secolo fa hanno scritto di avere diari, foto, lettere conservate con cura negli anni e che adesso mettono volentieri a disposizione dell'Archivio diaristico di Pieve Santo Stefano e del gruppo Espresso. Insieme a tutte le altre che arriveranno verranno raccolte, vagliate, selezionate, pubblicate.

Non mi aspettavo una reazione così pronta e vasta e me ne sono chiesto la ragione. La risposta che mi sono dato non so se è quella corretta, ma vorrei provare a ragionarne insieme.

Inviare oggi a un archivio e a dei giornali un diario scritto in trincea cent'anni fa penso sia frutto di un bisogno che il nostro paese, nel suo oltre secolo e mezzo di vita, non è riuscito a soddisfare.

Quello, di ciascun cittadino, di avere una memoria comune a quella del vicino di casa, dell'amico, del conoscente. Il bisogno, cioè, di vedere le sofferenze e le gioie di chi ci ha preceduto far parte di un unico, riconosciuto e condiviso processo storico. Mandando anche una sola lettera di un nonno o bisnonno perché sia conservata e magari pubblicata è come si volesse dire: "Ecco anche lui che non è stato un eroe ma sicuramente ha sofferto fa parte della nostra storia, e per quella sofferenza gli dobbiamo, tutti, riconoscenza".

E in questa direzione, quella di una memoria condivisa, va una recente iniziativa di cui ho dato notizia sull'Espresso di questa settimana. Uno storico magistrato militare, Sergio Dini, oggi sostituto alla procura ordinaria di Padova, ha scritto, insieme a due suoi colleghi, una lettera al ministro della Difesa che qui si può leggere integralmente. Il magistrato chiede che venga promulgato un "provvedimento clemenziale" in favore dei soldati che vennero fucilati nella Grande Guerra. Perché, spiega, "quelle fucilazioni, da un punto di vista strettamente utilitaristico ebbero un senso e contribuirono, in certo modo, alla vittoria finale". In altre parole fanno anche loro parte di una memoria che deve essere condivisa.

Parole sante

Parole sante quelle pronunciate dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano a margine dell'incontro con il presidente uscente della commissione Ue, Manuel Barroso.

L'Europa deve parlare in modo più chiaro, documenti e discorsi devono poterli capire tutti, dobbiamo "liberarci tutti da un certo codice cifrato", ha detto in sostanza il presidente.

Matteo Renzi, nel suo primo discorso da presidente di turno, ha fatto un piccolo passo in questo senso: ha messo da parte elenchi programmatici complessi e ha cercato di essere diretto ed esplicito, di farsi capire da tutti. Ma Napolitano si riferisce a molto altro. Al linguaggio da casta che deve imparare chi ha a che fare con l'Europa. A quei modi di dire, "cifrati" appunto, che dovrebbero essere messi da parte per chiamare ciascuna cosa nel modo più semplice e comprensibile. A documenti che invece di spiegare e creare consenso, creano un fossato tra l'istituzione europea e i suoi cittadini.

Forse può non essere uno degli obiettivi principali del semestre italiano. Ma un qualche segnale, bello forte, in questa direzione potrebbe davvero far capire che l'Europa ha deciso di cambiare, di avvicinarsi di più ai propri cittadini.

La barricata

Si stringono i tempi sulle riforme del nostro impianto istituzionale: Senato e legge elettorale. E questa è una buona notizia.

Ma aumentano anche i dissensi sulla "non elettività" del Senato, la "fronda" trasversale, interna ai partiti, che vede sulla stessa, provvisoria sponda, tra gli altri, Vannino Chiti Augusto Minzolini.

Io, in tutta sincerità e come ho già avuto modo di osservare, non capisco perché la "non elettività" stia diventando un barricata da difendere quasi a ogni costo. Per risparmiare? Per fare un taglio di costi chiaro e visibile da tutti? Può darsi. Ma ancora nessuno ha spiegato con adeguata chiarezza perché non possa essere seguita un'altra e, a mio avviso, più efficiente strada.

Oggi abbiamo 630 deputati e 315 senatori (più quelli a vita nominati dal presidente della Repubblica) per un totale di 945 parlamentari eletti. La proposta del governo Renzi, se dovesse essere approvata, lascerebbe i 630 deputati eletti direttamente a cui andrebbe aggiunto  il centinaio di senatori senza indennità ed eletti da consigli comunali e regionali ma che sempre a degli uffici dovrebbero appoggiarsi per svolgere il loro lavoro.

Se noi immaginassimo un parlamento eletto direttamente e composto da 400 deputati e 100 senatori (non rieleggibili) avremmo un minor numero complessivo di parlamentari (130 in meno con conseguente, significativo risparmio) e una maggiore teorica efficienza  di una Camera meno pletorica (cosa farebbero mai 400 deputati meno di di 630?) e di un Senato composto da senatori a tempo pieno.

Quanto ai poteri mi sembrano corretti quelli previsti dalla riforma governativa. Anche se cento senatori a tempo pieno e non rieleggibili potrebbero esercitare una incisiva funzione di controllo sugli atti governativi e avere forti poteri di inchiesta. Il che potrebbe non essere secondario in un sistema che sta prevedendo, come è giusto che sia, una legge elettorale che assegni a un'unica camera una maggioranza capace di esprimere un governo stabile e con maggiori poteri dell'attuale.

La malattia

«Mazzacurati mi disse che mi avrebbe corrisposto circa 200mila euro all’anno e alla fine del mio mandato un riconoscimento di alcuni milioni di euro. Io, imbarazzato, accettai».

Così ha detto ai giudici l'ex Magistrato alle acque di Venezia, Patrizio Cuccioletta. Che poi i soldi li ha presi davvero in  cambio della nomina dei collaudatori del Mose scelti direttamente dal Consorzio Venezia Nuova. Il controllato si sceglieva quindi, con un pacco di banconote, i propri controllori.

Vale la pena soffermarsi su questa frase del signor Cuccioletta. Quelle poche parole sono un condensato della malattia che attanaglia il nostro paese. Soprattutto le ultime tre: "Io, imbarazzato, accettai".

Io. Sono io che ho deciso, io che ero importante, io la persona alla quale devono rivolgersi, io l'uomo chiave.

Imbarazzato. Sono per bene, mai fatto cose del genere, sono onesto, non sono come quelli.

Accettai. Ma tengo famiglia e sono uomo di mondo, non potevo fare altrimenti. Sono vittima di un sistema che non ho certo creato io. L'ho trovato, non potevo mica oppormi, da solo, a forze così potenti.

Invece il signor Cuccioletta (se, come è obbligatorio precisare, tutto verrà confermato dai giudici) non è una vittima ma un corrotto che con le sue azioni ha contribuito in modo significativo a inquinare le istituzioni. Se tutti i Cuccioletta d'Italia facessero seguire alla parola imbarazzato invece che "accettai" un bel "rifiutai" il grande castello si sgretolerebbe, il sistema cadrebbe su stesso. Ma questo, per ora, è un sogno.

Grande Guerra, i diari raccontano

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Da ieri è online un lavoro al quale, negli ultimi mesi, mi sono dedicato con una certa intensità. E' un sito che vivrà sia di vita propria che all'interno dei siti dei giornali locali del gruppo Espresso e di quello del settimanale l'Espresso.

Il titolo è sufficientemente esplicativo: "La Grande Guerra, i diari raccontano".

Grazie a un accordo tra il Gruppo Espresso e l'Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano abbiamo, Nicola Maranesi (un giovane e bravo giornalista) e io, letto i diari dell'archivio che si riferiscono alla Prima guerra mondiale e selezionato i brani più interessanti. Dopo la loro digitalizzazione li abbiamo catalogati, geolocalizzati, spiegati...

Ne è nato uno strumento che consente a ciascuno un viaggio davvero particolare nelle trincee di quella immane tragedia che fu la guerra 1914-1918, di cui quest'anno ricorre il centenario.

Anche per noi che vi abbiamo lavorato è stato un viaggio eccezionale.

Riprendere in mano, dopo cent'anni, pagine scritte nel fango o nei ripari della seconda linea. Riuscire quasi a vedere con i propri occhi le atrocità che vengono descritte con parole semplici e crude. Restare stupiti di fronte alla profonda sensibilità che l'uccidere e il veder morire non riesce a sopprimere. Leggere di un uomo fucilato perché aveva la pipa in bocca o di un capitano che uccide due suoi soldati che non vanno all'attacco.

Tutto questo ci ha restituito emozioni profonde che speriamo di essere riusciti a trasmettere.

Ma ci ha anche consentito di stabilire un rapporto diverso con la generazione che ha combattuto la 14-18, quella dei miei nonni e dei bisnonni di Nicola. Una generazione alla quale noi, nati nel secondo dopoguerra, abbiamo prestato poca attenzione umana. Era guerra vecchia, guerra d'altri tempi... Abbiamo sbagliato. Perché le guerre non sono mai vecchie, né di altri tempi. Sono solo da sempre e per sempre la cosa più terribile che l'uomo possa causare.

I racconti dei diaristi aiutano a non dimenticarlo, a imprimerselo bene nella mente, a rispettare tutti coloro che sono stati costretti a combatterle. E a fare quanto è in proprio potere perché di guerre, nel mondo, ce ne siano sempre di meno.

 

Partita decisiva

Oggi, piu' di prima, molto piu' di prima, e' chiara una cosa.

La sua vera partita Matteo Renzi la gioca sul campo della moralita' pubblica, della lotta alla corruzione. Il bubbone scoppiato a Venezia ne è solo l'ultima, clamorosa conferma.

Il ventennio lungo, iniziato con Mani pulite e con la caduta di Dc e Psi, non e' finito. Il ciclone che sembrava tutto dovesse pulire per creare una nuova Italia, e' diventato una burraschetta, di quelle capaci di spaventare solo i bagnanti della domenica.

Gran parte delle responsabilita' sono sicuramente del berlusconismo, che dichiarava di voler andare oltre il passato e che invece del passato si e' dimostrato il peggior continuatore,

Ma e' stata ed e' anche responsabilita' della sinistra nel suo complesso che in questi anni, per lunghi periodi, ha, in qualche modo, guidato il paese. E che, almeno in parte, di quel passato e' stata ugualmente continuatrice.

E' per questo quindi che la vera, decisiva partita di Matteo Renzi si gioca su una concreta operazione di sradicamento che porti via la malapianta che cresce da decenni nei palazzi del potere di cui e' disseminata la penisola.

Piu' decisiva di tutto il resto.

No, non è la Dc

Il Partito democratico è la nuova Democrazia cristiana? E' il nuovo grande partito dell'italiano medio un po' cattolico, un po' conservatore, un po' pauroso del cambiamento, un po' di sinistra ma poco poco, un po' di destra ma poco poco?

Senza avventurarsi in paralleli storici complessi, e anche inutili tanto sono differenti le situazioni, penso si possa rispondere tranquillamente no, il Pd non è la nuova Dc.

I progetti del segretario-presidente del consiglio hanno un così forte contenuto di cambiamento, in Italia e in Europa, che è difficile trovare qualcosa di appena simile nei decenni di dominio dc.

Matteo Renzi non difende l'esistente, ma indica cosa e come va modificato con precisione e con grande energia. Viene addirittura accusato di fare programmi troppo densi e con tempi impossibili, esattamente l'opposto di quello che faceva la Dc. E non è, almeno fino a questo momento, il terminale di interessi consolidati che devono essere protetti.

Certo, tra chi ha votato Pd ci sono sicuramente uomini e donne che l'ultima volta hanno fatto il segno sul nome di Berlusconi o anche di Grillo. E questa capacità dimostrata da Renzi di attrarre voti dai settori più disparati è uno degli elementi principali a favore della tesi Pd=Dc.

Ma invece dimostra l'opposto. Dimostra cioè che una buona fetta di elettorato si sente rassicurata e da fiducia a chi vuole mettere mano alla costituzione, combattere i privilegi, incidere radicati bubboni, lottare per una diversa Europa.

Non è un ritorno della Dc, ma una stagione nuova dove tutto è rimescolato e che è stata aperta da un voto inequivocabile: la maggioranza del paese vuole davvero cambiare le cose. Sembra una frase generica e retorica, ma non lo è.