Istantanea Pier Vittorio Buffa

La casa che non c’è più

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La casa di Yang Wu e Wu Ping non c'è più. Così come, alla fine, il ragazzo di Tien An Men sparì davanti ai carri armati, così i due coraggiosi coniugi cinesi di hanno accettato, dopo tre anni, di trasferirsi in una casa nel centro di Chongqing. Non importa se la loro lotta li ha economicamente favoriti. Né le ragioni della loro resa finale. L'importante era ed è quello che hanno fatto. Assediati hanno resisitito oltre l'umana tolleranza e hanno costruito un simbolo, quella della loro piccola casa che si oppone alla logica aggressiva e spavalda del profitto. Per questo quella di oggi è una brutta istantanea, è quella della loro casa che crolla.

Piccole bolle d’aria

moana-pozzi-7.jpgSono state piccole bolle d'aria a uccidere Moana Pozzi la notte del 15 settembre 1994. Lo ha rivelato (e noi, fino a prova crontraria dobbiamo credergli) il marito Antonio Di Ciesco in una lunga intervista al Messaggero: le danno tre mesi di vita, Moana gli chiede di "aiutarla ad andare" e lui usa la cannula della flebo per darle una morte dolce. "Non sono pentito, è stata una scelta giusta, che mi è costata ma non c'era rimedio".
Eccolo qui il volto radioso di Moana, una ragazza che fu qualcosa di più e di diverso di una semplice pornostar. L'epilogo della sua vita, raccontato con parole semplici e dirette, ce lo riporta davanti agli occhi con una luce ancora diversa, ma sempre forte. La luce che sanno dare le scelte estreme.
Non serve condividerle o meno perché le scelte estreme, per definizione, dividono, suscitano reazioni forti, indignano, commuovono.
La luce che diffondono porta al silenzio perché bisogna sforzarsi di entrare in quell'uomo e in quella donna che, come racconta Di Ciesco, hanno stretto un patto così saldo da portare a dare la morte per amore. Bisogna sforzarsi di capire le paure dell'una e le angosce dell'altro, il dolore di entrambi. Ma nessuno può riuscirci perché le scelte estreme possono essere fatte solo da chi se le trova davanti, come un bivio obbligato della vita. Noi dobbiamo farle entrare dentro di noi per trarne il buono, o il cattivo, che le nostre coscienze sapranno filtrare. Qualcosa, sicuramente, resterà.

La casa di Yang Wu

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Guardiamola bene l'istantanea di oggi. Soffermiamoci il tempo che serve su questa povera casa rimasta in cima a una collina scavata dalle ruspe. Siamo in Cina, a Chongqing, una megalopoli del sud ovest da 30 milioni di abitanti. Lì, su quel terreno, deve sorgere un grande centro commerciale e tutti quelli che ci abitavano se ne sono andati accettando un modesto indennizzo. Ma Yang Wu e sua moglie Wu Ping hanno detto no, e continuano a ripeterlo dal 2004. Gli hanno offerto poco più di 300 mila dollari, loro vogliono il doppio più una casa. Il giudice aveva fissato lo sgombero, come racconta il China Daily, per il 22 marzo, ma loro sono ancora lì, a difendere il piccolo castello.
Guardiamola bene questa istantanea e lasciamole fare il suo lavoro, quello di produrre dentro di noi le sensazioni e i pensieri più diversi.
A me ha ricordato il ragazzo che cerca di fermare i carri armati in piazza Tien An Men. Probabilmente, se adesso fosse a Chongqing, si metterebbe al fianco di Yang Wu e Wu Ping per cercare di fermare le ruspe. E soccomberebbero tutti e tre perché la piccola casa è destinata a diventare polvere. Ma questa foto, come quella di Tien an Men, è destinata a restare in qualche modo nella storia della Cina. E' la silenziosa testimone che il futuro e il progresso devono comunque fare i conti con un passato che non può essere scacciato come una mosca fastidiosa.

Il pentolino della mamma

foglio1.gifL'istantanea di oggi è un'istantanea che non c'è.
Fissa il momento in cui il piccolo Samuele viene ucciso a Cogne, sei anni fa. E' un attimo che buona parte degli italiani hanno immaginato dentro di sé soprattutto nei mesi in cui "Cogne" era il fatto di cronaca più presente sui giornali e in televisione.
Nitido il gesto: una mano di adulto che colpisce, con qualcosa di duro, un bimbo inerme fino a ucciderlo.
Confuso, sino ad essere irriconoscibile il volto di chi impugna l'arma assassina: quello della mamma Anna Maria, di una vicina o di un altro misterioso personaggio?
Oggi, 27 marzo, non è ancora stata emessa la sentenza di secondo grado del processo contro Anna Maria Franzoni ma ha parlato la pubblica accusa. Con parole crude e chiare ha completato, senza tentennamenti, la nostra istantanea. E' un semplice figlicidio, ha detto il magistrato, è stata la mamma a uccidere Sammy, con un pentolino o un mestolo, in un momento di rabbia. Nessuna infermità di mente, nessun complotto, nessuna persona che entra e esce per vendicarsi della coppia. E ha detto tutto questo con la tranquilla coscienza di chi ha passato in rassegna tutte le prove possibili e che non ha più nessun ragionevole dubbio che le cose siano andate così.
Aspettiamo la sentenza, aspettiamo il passaggio in Cassazione, aspettiamo che la giustizia arrivi a una pronuncia definitiva.
Ma quando questo giorno arriverà ricordiamoci della nostra istantanea bianca, andiamola a cercare e guardando il suo vuoto passiamo qualche minuto a chiederci chi e perché l'ha voluto riempire così tanto e così a sproposito.

La figlia senza padre

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Pietro Gugliotta faceva parte della banda della Uno Bianca (24 morti e 102 feriti) ed ha chiesto e ottenuto di uscire dal carcere per qualche ora, in permesso. Ma si oppone la procura della Repubblica, si oppongono i familiari delle vittime e, soprattutto, si oppone sua figlia. "Un premio a che era complice di gente che sparava e uccideva? Un premio a chi è stato causa del suicidio di mio nonno? Sono contraria contrarissima" ha detto in una toccante intervista raccolta da Carlo Gulotta per la cronaca bolognese di Repubblica. E' l'istantanea che oggi ci si impone per la risolutezza e la forza delle parole di questa ragazza. L'immagine è quella di Pietro, come chiama l'uomo che non considera più padre, perché lei ha anche cambiato cognome dopo aver scoperto su internet i crimini della banda dei poliziotti.

Si può sostenere che l'amore filiale può e deve passare sopra a tutto.

Si può sostenere che anche l'uomo più crudele e violento ha dentro di sé un germe di bontà.

Si può sostenere che nessuno deve essere condannato per la vita, che il perdono è una delle più intense (e difficili da praticare) virtù umane. E, personalmente, sono in parte d'accordo, con tutto questo.

Però bisogna prima leggere le parole di questa ragazza con rispetto e attenzione, senza preconcetti e senza cedere a nessun tipo di strumentalizzazione.

Ci dicono del dolore immenso di chi scopre, perché il più le è stato fino a quel momento pietosamente celato, di essere stata generata da un uomo capace di delitti così efferati. E dal quale non viene nessun segnale di pentimento.

Ci dicono di una figlia senza padre che cerca solo in se stessa la ragione della propria esistenza.

Ci dicono dell'odio che nasce dall'odio. E non si può certo chiedere a lei, alla figlia senza padre, di rompere la catena. Ce lo spiega lei stessa: "Bisogna chiedere a chi ha avuto un parente ucciso, a chi porta ancora addosso i segni dlle pallottole. Chiedetelo a loro cosa pensano di questo permesso premio. Per me, concederlo, sarebbe una vergogna".

Cronisti e no

feltri.jpgVale la pena rischiare la pelle per scrivere articoli che si potrebbero scrivere anche da casa? Questo, in sostanza, si è chiesto Vittorio Feltri parlando in televisione, a Porta a Porta, di Daniele Mastrogiacomo. Ed è al direttore di Libero che voglio scattare l'istantanea di oggi, il giorno dopo il ritorno a casa dell'inviato di Repubblica.
Un'istantanea amara come lo sono le parole di Feltri. Certo, tutti gli articoli possono ormai essere scritti da qualunque parte del globo su un fatto avvenuto dalla parte opposta. Da Buenos Aires posso raccontare di Mosca e da Roma dell'Afghanistan come del Sud Africa.

Portando questo principio alle sue estreme conseguenze si arriverebbe a un sistema informativo mondiale perfetto ed economico. Un unico giornalista per tutti in ciascuna capitale che racconta quello che vi succede agli altri giornalisti che, nel resto del mondo, riportano le sue storie.
Da Kabul arriverebbero cronache inevitabilmente ispirate dal governo Karzai. Da Baghdad sarebbe probabilmente la visione americana della crisi ad avere il sopravvento, da Roma forse nessuno racconterebbe i guai degli ospedali e da Washington non sapremmo dei reduci dall'Iraq che disertano. Questa non sarebbe informazione.
Quindi io non so se vale la pena rischiare la pelle, lo può decidere solo il giornalista che si trova a tu per tu con questa eventualità. So solo che lo sforzo di essere testimoni il più possibile diretti delle storie che si è chiamati a raccontare è la regola base del nostro mestiere, quella su cui viene costruito tutto il resto. A qualunque latitudine e a qualunque longitudine.
Se non si rispetta questa regola si fa dell'altro.

La bicicletta e il terrorista scrittore

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L’arresto in Brasile di Cesare Battisti, condannato a due ergastoli per reati di terrorismo, ha coinciso quasi perfettamente con il quinto anniversario dell’assassinio di Marco Biagi e con le polemiche sull’atteggiamento verso gli ex terroristi. E’ per questo che ho scelto la foto della bicicletta con cui Biagi andò incontro alla morte come istantanea del 19 marzo 2007.

Sono tre gli episodi che hanno preceduto questo 19 marzo.

L’intervista televisiva al fondatore delle Brigate rosse Alberto Franceschini realizzata in via Fani, la strada dove Moro venne rapito e la sua scorta massacrata. L’intervento di Renato Curcio, l’altro fondatore delle Brigate rosse, primia di un dibattito a Napoli. E infine l’arresto, appunto, di Cesare Battisti.

L’intervista a Franceschini ha provocato la protesta delle famiglie dei poliziotti e dei carabinieri uccisi in via Fani e il successivo appello del capo dello Stato a un più rigoroso rispetto dei familiari delle vittime del terrorismo.

Renato Curcio è stato insultato e spintonato. È stato, in sostanza, contestato il suo diritto a partecipare a quel dibattito in cui veniva presentato un libro della sua casa editrice.

Intorno a questi due episodi si è dunque innestata e, probabilmente resterà per un bel po’ sul tappeto, la discussione su quale sia il giusto atteggiamento verso gli ex-terroristi. È giusto che vengano intervistati, invitati a tenere conferenze, candidati, ed eletti, al Parlamento? In altre parole, la sovraesposizione di cui sono stati e sono protagonisti molti di loro è o no una mancanza di rispetto verso chi, a causa del terrorismo, ha molto sofferto?

Molti anni fa, visitando il carcere di Nuoro insieme a Franco Giustolisi conobbi Alberto Franceschini. Dopo un po’ di tempo gli proponemmo di raccontarci la sua storia e ne nacque un libro per Mondadori, Mara Renato e io, storia dei fondatori delle Brigate Rosse. Il primo in cui un capo brigatista si raccontava, l’unico, per quel che ne so, in cui si entra nella vita minuta dei primi brigatisti. Dopo l'uscita di quel libro Franceschini, che era un dissociato dalla lotta armata, andò al tavolo di diversi dibattiti, rispose a domande, parlò in televisione. E’ stato giusto? E’ stato sbagliato? Me lo sono chiesto tante volte in questi anni e le vicende di questi giorni mi hanno fatto mettere ancora una volta mettere questo problema sul tavolo. Mi sono risposto così.

È stato giusto perché Franceschini e tanti altri come lui sono la prova diretta e concreta del fallimento della follia terroristica. Portano sul volto i segni della disfatta e le loro parole di uomini sconfitti non possono che far bene alla nostra democrazia.

E’ stato sbagliato se anche una sola persona direttamente toccata dalla violenza si sente offesa dal semplice fatto che uno come Franceschini parli in pubblico, su un libro, in televisione. A lei deve chiedere scusa l’ex terrorista e chi gli ha dato voce: una, dieci, mille volte.

Ma non bisogna rinunciare a capire sempre di più, a togliere ogni velo da quegli anni, a mettere a nudo la follia che ha percorso un pezzo di generazione. Con equilibrio e serietà, tenendo sempre davanti a sé la bicicletta di Biagi e i lenzuoli bianchi di via Fani e di tutte le altre strade dove i terroristi hanno premuto i loro grilletti.

L’arresto di Battisti sposta ancora più avanti la discussione. Qui siamo di fronte a un ex terrorista latitante condannato a due ergastoli per aver ucciso. Lasciarlo libero in Brasile sarebbe stato gravissimo da parte di uno Stato giusto. E il solo parlare di amnistia, commentando il suo arresto, suona come una profonda mancanza di rispetto verso chi ha sofferto. E soffre ancora.

I Navajos e i contrabbandieri

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L’impronta di un piede sulla sabbia del deserto dell’Arizona. L’ha scattata Rick Scibelli per il New York Times che l’ha utilizzata per illustrare un articolo sugli indiani Navajos. La notizia è stata ripresa anche da alcuni giornali italiani: un piccolo gruppo di indiani, una quindicina, vengono utilizzati lungo la frontiera sud del paese, quella con il Messico minacciata dall’immigrazione clandestina e dai contrabbandieri della droga.

E proprio di uno smuggler, di un contrabbandiere, è il piede impresso nella sabbia. Il governo americano difende quel vasto confine con le più moderne tecnologie ed è stata persino approvata la costruzione di un vero e proprio muro lungo più di mille chilometri. Ma non basta, droga e uomini continuano a entrare nel paese. Così sono stati chiamati in servizio gli indiani. Come ai tempi del West, quando precedevano gli squadroni di cavalleria immortalati in centinaia di film, usano il fiuto e la vista per arrivare là dove non arriva la tecnologia più sofisticata. E infatti l’articolo del New York Times parte proprio dal racconto di un’operazione anti droga guidata da un Navajo, Harold Thompson, che fa parte dei quindici Shadow Wolves, Lupi ombra, arruolati dal governo federale. Un’operazione condotta seguendo le tracce sulla sabbia e conclusasi con l’arresto dei contrabbandieri.

Il piede di quel contrabbandiere in cui Thompson ha saputo leggere direzione, velocità di marcia e distanza approssimativa della preda mi ha riportato a tanti anni fa, quando visitai un museo sugli indiani a New York. Era molto lontano da Central Park, era poco segnalato dalle guide, non c’erano molti visitatori. Non lo potrò mai dimenticare. Perché quello era proprio un museo nel quale si parlava degli indiani d’America come fossero una razza estinta, o quasi. Forse furono le cifre a lasciarmi questa amara sensazione, le cifre dello sterminio di una popolazione riportate in modo asettico, tribù per tribù. Centomila, quattromila superstiti. Duecentomila, seimila superstiti…

Ma oggi Thompson insegue il piede di un contrabbandiere per conto del governo degli Stati Uniti. E’ la più pacifica e serena vendetta, di quelle che danno sollievo pensando al domani. Forse i figli dei nostri figli, o i figli dei figli dei nostri figli potranno assistere, in tante altri parti del mondo, a vendette come quella di Thompson, che significano pace e tolleranza. Noi, per parte nostra, dobbiamo fare di tutto perché vendette di questo tipo arrivino il prima possibile.

Un cerchio su un foglio bianco

foglio.gifQuesto blog è nato una mattina come tante altre mentre stavo leggendo i giornali, consultando i siti internet con i quali inizio la giornata, guardando il telegiornale di Sky, rispondendo al telefono. Una mattinata come tante altre con notizie, immagini, commenti che si rincorrono così velocemente che sembrano quasi elidersi l’uno con l’altro.

Quella mattina però mi sono fermato per un attimo, ho fatto un cerchio su un foglio bianco, al centro del cerchio ho fatto una crocetta, ho piegato il foglio e l’ho messo nel cassetto. Quei gesti li ho ricordati con precisione un paio di settimane fa, quando ho svuotato quel cassetto e, in mezzo a tante altre carte, ho ritrovato il cerchio con la crocetta, quasi un mirino. Mi sono fermato a guardarlo e, poco a poco, mi è ritornato alla mente quello che mi aveva spinto a disegnarlo.

Quella mattina avevo desiderato che il tempo si arrestasse per un momento per potermi muovere, anche solo per qualche attimo, in una zona franca dove tutto diventa silenzioso e soffuso e si ha il tempo di cogliere un particolare, una situazione, una immagine. Una zona franca che ho deciso di costruire con il mio strumento di lavoro di sempre, la parola scritta. E dandogli un nome che viene da una passione riscoperta di recente, quella per la fotografia.

Mi prenderò il mio tempo per ragionare brevemente su una immagine, una parola, un gesto. Per isolarli dal resto. Per sottrarli, per quanto possibile. Per scattare, appunto un’istantanea che registrerò in questo blog.