Istantanea Pier Vittorio Buffa

Demagogia

L'altra sera ho seguito con grande attenzione la prima volta di Beppe Grillo da  Bruno Vespa. E ho aspettato qualche giorno prima di cercare di fare qualche riflessione. Per non cedere agli impulsi del momento, per lasciar sedimentare impressioni ed emozioni.

Belli slogan, efficaci battute. Considerazioni condivisibili sulla necessità di mandare a casa politici corrotti, di costruire una classe politica sana.

Ma per fare cosa? Grillo, come in tanti hanno osservato, non ha illustrato proposte, non ha indicato coperture finanziarie per cose belle come il reddito di cittadinanza, non ha risposto alle garbate ma precise domande, non ha controbattuto con fatti concreti ai paterni "Ma dai su..."  di Vespa. E se un leader non ha idee chiare su cosa fare, non sa spiegare cosa farebbe se dovesse andare al governo io non mi fido.

Perché la politica dovrebbe essere l'arte del costruire, non del distruggere. E costruire è più faticoso e rischioso. Vuol dire mettere in conto  l'impopolarità, affrontare i problemi concreti, proporre ciò che si sa, o si immagina, realizzabile.

Altrimenti è demagogia, cioè la "pratica politica tendente a ottenere il consenso delle masse lusingando le loro aspirazioni specialmente economiche, con promesse difficilmente realizzabili" (Vocabolario Treccani). O, secondo al definizione di Tullio De Mauro (Grande dizionario italiano dell'uso), la "ricerca del consenso politico ottenuto sfruttando le passioni e i pregiudizi delle masse".

Due lezioni

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L'altra sera ho seguito un dibattito pubblico in cui Luigi Berlinguer presentava la candidata del partito democratico alle europee Silvia Costa.

Berlinguer, nato nel 1932 e parlamentare europeo uscente, ha spiegato con parole semplici e dirette perché l'Europa non è solo una questione economica e perché non ne possiamo fare a meno. E ha cominciato da dove spesso ci si dimentica di cominciare.

Da 70 anni, e per la prima volta nella storia, ha sostanzialmente detto Berlinguer, in Europa non ci sono guerre. E questo dopo un secolo, il Novecento, in cui gli europei hanno ucciso milioni e milioni di europei. La pace in cui viviamo, ha concluso, la dobbiamo all'Europa Unita.

Ha usato frasi forti ma comprensibili da tutti, è andato al nocciolo della questione. Senza urlare, ma con calma e guardando dritto negli occhi.

Ne ho tratto due lezioni.

La prima che non bisogna mai dimenticare da dove si viene. Non dobbiamo dimenticarlo noi e non dobbiamo farlo dimenticare agli altri. Parlando, spiegando, ricordando, in questo caso, come e perché è nata l'Europa Unita. Si capisce meglio quello che accade oggi. Si traccia meglio la rotta per il futuro.

La seconda è che dovremmo ascoltare un po' più spesso chi ha parecchi anni di vita alle proprie spalle. Se ne possono trarre, appunto, lezioni importanti, come a me è capitato l'altra sera. Con calma, seduto su una sedia a seguire discorsi pacati.

 

Una cosa che era opportuno non fare

Ci sono delle cose, nella vita, che e' opportuno non fare.

Per se stessi, per gli altri, per la trasparenza dei comportamenti, per spazzare via malpensanti, per non esser condizionati.

Una di queste e' quella che ha fatto una persona seria e rispettabile che si chiama Paolo Pigni, direttore della struttura di Cesano Boscone dove Silvio Berlusconi sta per iniziare a scontare la sua pena per aver frodato il fisco.

Paolo Pigni e' andato a vedere il derby Milan-Inter in tribuna vip, come racconta qui il Corriere della Sera, spiegando che a trovargli il posto hanno pensato alcuni amici.

Sara' senz'altro andata così. Nulla deve Paolo Pigni all'ex cavaliere Silvio Berlusconi, che allo stadio era il padrone di casa.

Ma il dubbio è immediato. E' legittimo e ovvio sospettare che quella poltrona sia un gentile dono del pregiudicato Berlusconi.

E' per questo, solo per questo, che Paolo Pigni avrebbe dovuto dire a se stesso che sarebbe stato meglio vedersi la partita in televisione.

Non pensavo potesse accadere

"Io non pensavo che questo potesse accadere. Non immaginavo che dopo trent’anni e più che ci siamo tolti le stellette e abbiamo fatto il sindacato ci potessero essere poliziotti così. Che applaudono chi ha fatto scempio della propria divisa e della propria missione.

Perché la nostra è una missione. Ci danno pochi soldi, è vero, ma lo sappiamo da quando ci arruoliamo. E dovremmo saperlo di essere diversi dagli altri.

Siamo poliziotti.

Poliziotti capaci di prendere sputi e insulti.

Poliziotti capaci di arrestare un uomo o una donna senza muovere una mano o sferrare un cazzotto, anche se qualche volta ci vorrebbe.

Poliziotti che non prendono a calci un ragazzo in overdose o fuori di testa. Per nessun motivo.

Poliziotti che sorridono a uomini e donne che fermano perché questo è il loro lavoro.

Poliziotti che arrestano uomini e donne senza violenze.  Perché gli uomini e le donne non hanno nulla da temere. Se hanno infranto la legge ci sarà un giudice. Se non l’hanno infranta niente può accadergli”.

Questo direbbe un poliziotto per bene che negli anni Ottanta ha combattuto per una polizia senza stellette e al servizio del Paese. E ce ne sono stati tanti. Decine, centinaia.

Questo, oggi, non lo dice più nessuno.

Indossare una divisa

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Ancora una morte non chiara. Una morte avvenuta quando una persona in difficoltà è, di fatto, sotto il controllo fisico delle forze dell'ordine. E ancora una sola persona, il senatore Luigi Manconi, presidente della Commissione diritti umani del Senato, capace di alzare la voce, di farne parlare i giornali, di impedire che tutto finisca per essere dimenticato. Come aveva fatto, recentemente, per il caso di Giuseppe Uva.

Riccardo Magherini è morto la notte tra il 2 e il 3 marzo e qui Il Fatto ricostruisce dettagliatamente quello che si sa degli ultimi atti di vita dell'ex calciatore. Maria Elena Vincenzi su Repubblica ha dato conto di una mail inviata dal pubblico ministero Luigi Bocciolini all'avvocato della famiglia Magherini: «Sotto il profilo del segreto investigativo, Le rappresento la situazione: vi è in fondato (qui un errore di battitura, tutto fa pensare che il pm volesse dire «il » o «un ») motivo di ritenere che almeno uno dei militari intervenuti abbia colpito il ragazzo con dei calci al fianco mentre era a terra ammanettato».

Un paese non può definirsi civile se un cittadino non è sicuro, in caso di difficoltà, di poter contare su forze di polizia capaci di rispettare fino in fondo la dignità umana e di ripudiare l'uso della violenza fine a se stessa. La giustizia stabilirà quel che è accaduto davvero a Magherini. A ciascuno di noi penso corra l'obbligo di non far scivolare queste vicende nell'oblio. Perché solo parlandone e chiedendo giustizia si può contribuire a emarginare chi ancora pensa che indossare una divisa voglia dire poter calpestare i diritti degli altri.

Nella foto qui sopra il volto dell'ex calciatore dopo la morte.

 

Chiedere giustizia e non dimenticare

Il presidente del Senato Pietro Grasso ha deciso di ricordare il 25 aprile con un convegno in cui, nel settantesimo anniversario, si parlerà delle stragi nazifasciste

L'appuntamento è per giovedì 24 alla sala Kock di palazzo Madama. Con sindaci e presidenti di Regione, con il giornalista Franco Giustolisi, con alcuni sopravvissuti alle stragi, con l'attrice Pamela Villoresi che recita i loro racconti (dal mio libro Io ho visto).

Un convegno che ha, per la sua stessa conformazione, due obiettivi. Chiedere giustizia e non dimenticare.

Chiedere giustizia dopo settant'anni ha ancora un senso forte, molto forte. Come dice Giustolisi, quella delle stragi nazifasciste, 10-15 mila morti in meno di due anni, è la più grande tragedia che ha investito la popolazione civile italiana. Per decenni i responsabili non sono stati processati (vedasi la storia dell'Armadio della vergogna). Poi sono stati processati, alcuni assolti gli altri condannati all'ergastolo. Ma ormai anziani e senza aver rinnegato il proprio passato (sono almeno una quarantina in vita) questi ergastolani se ne stanno tranquilli a casa loro aspettando la fine dei loro giorni. Senza che nessuno stia seriamente cercando di far eseguire le sentenze, nemmeno in modo poco più che simbolico. E una giustizia che non fa eseguire le sentenze non è giustizia.

Non dimenticare vuol dire non lasciare che le atroci sofferenze inflitte allora scivolino tra le cose di cui si è persa la memoria. Vuol dire imprimere quegli orrori nelle coscienze di chi viene dopo di noi, perché sappiano dove può arrivare la crudeltà umana e facciano di tutto per combatterla. Ogni parola detta, scritta o recitata aggiunge un granello a questa impresa.

 

Del valore del cambiamento

Matteo Renzi ha detto con parole molto chiare che chi non cambia e' di destra, rifacendosi cosi' a schemi di radici ottocentesche. La destra conserva, la sinistra cambia, guarda avanti, e' progressista.
Negli ultimi decenni, pero', le carte si sono un po' rimescolate. Silvio Berlusconi, per fare riferimento a un semplice esempio di casa nostra, era ed e' di destra ma ha chiesto e ottenuto voti "per cambiare".
Non me la sento quindi di sottoscrivere l'affermazione di Renzi. E' cosi' semplicistica da poter diventare fuorviante.
Direi piuttosto che il cambiamento e' elemento indispensabile di una buona politica. Ma non e', da solo, sufficiente a definire una politica "buona" e "di sinistra". In altre parole e' una condizione necessaria ma non sufficiente.
Quello che Renzi vuol cambiare va cambiato. Sta attaccando con energia e determinazione nodi aggrovigliati da lustri e lustri.
Ma attenzione a non vedere in chi vuole dire la sua e ragionare nel merito del cambiamento un nemico, uno di destra camuffato. Forse discutere con lui potrebbe far rallentare un po'. Ma se ne potrebbero anche ricavare benefici collettivi non da poco.

Il vento che non mi piace

Il vento che non mi piace è quello che porta in giro per le case e per i palazzi d'Italia concetti di questo tipo:

"Se si intralcia il cammino delle riforme, se se ne ritardano i tempi, se si presentano progetti alternativi a quelli del governo, vuol dire che non si crede nel rinnovamento, che lo si boicotta, che si è conservatori dentro, che si disturba il manovratore che sta lavorando per il bene del paese".

Nessuno, nell'ampia area della sinistra, fa forse un discorso così diretto ed esplicito. Ma il vento si insinua dappertutto, è potente, i pensieri li fa diventare convincimenti. E quindi è bene non diventarne prigionieri. Proprio per partecipare, come appuntavo qui, a quella che potrebbe diventare una grande Vittoria.

Vorrei dunque dire due parole sulla profonda riforma del parlamento proposta dal governo. In particolare per quello che riguarda il Senato.

Su un punto non mi pare ci possa essere discussione: abolizione della doppia lettura delle leggi, il cosiddetto bicameralismo perfetto.

Su altre questioni mi pare invece si debba discutere, e molto, perché ne va degli equilibri futuri della nostra democrazia. Ne scelgo due.

Composizione delle Camere e numero dei parlamentari. La non elettività diretta dei senatori non mi sembra di per sé un valore, creerebbe un'assemblea a "mezzo servizio", qualunque esso sia. Più incisivo e con effetti decisamente maggiori sul risparmio sarebbe ridurre drasticamente il numero di deputati e senatori, tipo 400 in tutto o poco più. Lo prevede, ad esempio, la proposta di Vannino Chiti sottoscritta da una ventina di parlamentari del Partito democratico.

Compiti del Senato. Il Senato, non avendo più come funzione principale l'approvazione delle leggi e non votando la fiducia, potrebbe diventare la marcia in più del nuovo parlamento italiano. Importanti competenze, soprattutto per quello che riguarda il raccordo con le autonomie, sono previste nella proposta del governo. Altre, decisive, potrebbero delineare un forte Senato di garanzia con il potere di intervenire su leggi chiave come quelle costituzionali ed elettorali, di avere poteri di inchiesta sugli atti del governo e della pubblica amministrazione. Se la sua elezione rispettasse poi un criterio regionale-proporzionale il Senato potrebbe diventare uno straordinario elemento di equilibrio in un sistema che, per come si sta delineando, darà grandi poteri a chi vincerà le elezioni anche partendo da una maggioranza relativa non eccessivamente ampia.

 

La grande Vittoria

In questo periodo sto conducendo un'esistenza schizofrenica.

Da una parte sono immerso, per un progetto al quale sto lavorando, nella lettura di decine di diari di soldati che hanno combattuto cent'anni fa sul Carso e sulle Dolomiti.

Dall'altra seguo come sempre, giorno dopo giorno, quel che accade in Italia e nel mondo.

Sul Carso e sulle Dolomiti reggimenti e battaglioni stavano fermi mesi nella stessa trincea, o avanzavano e arretravano di pochi metri. Lasciando nella terra di nessuno morti su morti. Poi la grande Disfatta, consumatasi in pochi giorni, e la grande Vittoria, conquistata ugualmente in pochi giorni, anche se preparata per tempo e con cura.

Come alzo la testa da quelle pagine scritte con ordine, con molti "ò" al posto di "ho" e con molti "meco" al posto di "con me", resto a bocca aperta vedendo come tutto stia scorrendo veloce come non si è mai visto.

Auto blu: via.

Superstipendi: via.

Senato: via.

Province: via.

Porcellum: via.

Quasi un sogno, un bellissimo sogno che si sta realizzando dopo decenni e decenni.

Poi torno a leggere. Stamattina ero sull'Adamello con un sottotenente degli alpini che raccoglie fiori da mandare a casa e che descrive le sue battaglie con il distacco e la calma del bravo cronista. Da lassù, mentre il sottotenente descriveva i mucchi di morti "che puzzavano orrendamente", ho letto gli ultimi sondaggi, del Pd in testa, di Matteo Renzi che punta al 40 per cento.

E il parallelo mi è venuto spontaneo.

La nostra grande Disfatta, noi del Duemila, l'abbiamo già subita. Preparata da un popolo che ha lasciato che una classe dirigente pensasse più al proprio tornaconto che al bene comune.

Ora dobbiamo conquistarci la grande Vittoria. Che, come avvenne cent'anni fa, va preparata con grande cura. E non può essere il problema di uno solo, di Matteo Renzi e dei suoi, appunto. Così come, cent'anni fa, la grande Vittoria non fu problema solo di Armando Diaz.

A chi non piacciono, come in parte non piacciono neanche a me, la velocità e l'apparente faciloneria con quale il presidente del consiglio sta agendo, deve fare uno sforzo e andare oltre. E contribuire, per quelle che sono le sue capacità, alla grande Vittoria.

Utopia? Forse, ma vale la pena cercare di perseguirla.

 

#TwitterisblockedinTurkey

Bisogna soffermarsi anche solo un minuto a riflettere su quello che sta accadendo dopo la decisione di Erdogan  di "bloccare" twitter in Turchia.

Cliccate qua. Anche chi non ha un account twitter e non frequenta il social network può rendersi conto della marea di proteste che si stanno rovesciando da tutto il mondo sul governo turco. Ma oltre che di proteste la rete si è riempita di istruzioni tecniche su come aggirare il blocco. Il risultato è stato un significativo aumento del traffico di tweet dalla Turchia.

Può piacere o meno l'uso di twitter. Lo si può considerare un modo nevrotico di vivere la vita. Ma è diventato un linguaggio planetario, un alfabeto morse che tutti conoscono, al quale tutti possono accedere e che vaga per l'atmosfera senza che nessuno lo possa fermare. Se qualcuno spegnesse i server che tengono in vita il microblogging altri se ne accenderebbero. E così via in una sorta di moto perpetuo che risponde a un bisogno primario.

Quello di comunicare, di esprimere il proprio pensiero, di essere informati. E questo vince su tutto, è una forza inarrestabile, da sempre.

Quella frase di Erdogan, "Sradicheremo twitter" è molto più che patetica. E' un drammatico sintomo di ignoranza.

 

Manconi, il caso Uva e la tortura

Per quello che puo' contare sottoscrivo integralmente l'appello di Luigi Manconi sul caso di Giuseppe Uva. Lo si puo' leggere qui e qui si possono leggere le interrogazioni del senatore Manconi su Uva e sul caso Cucchi.

Lo sottoscrivo perche' ci tiene con i piedi per terra e ci ricorda, con la forza che Manconi ha sempre messo nelle proprie iniziative, uno dei capisaldi della convienza civile.

Quello di potersi fidare delle persone a cui la comunita' affida la propria sicurezza e a cui, a questo solo fine, conferisce particolari popteri.

In altre parole, potersi fidare della polizia, dei carabinieri, della guardia di finanza...

Con Uva e' successo quello che non dovrebbe succedere, e Giuseppe e' morto dopo essere stato in una caserma. Il pubblico ministero aveva chiesto, come Manconi spiega nel dettaglio, il proscioglimento di poliziotti e carabinieri, il giudice ne ha ordinata l'imputazione. Adesso Manconi chiede una cosa molto semplice: che non sia lo stesso pubblico ministero che non voleva il giudizio per poliziotti e carabinieri a sostenere l'accusa nel processo. E questo perché il percorso della giustizia possa procedere spedito e, dopo 6 anni, i colpevoli, se dichiarati tali, possano essere puniti.

Aggiungo che forse è giunto il momento di tornare a ragionare su quel reato di tortura che è sempre rimasto ai margini del dibattito politico. Se un cittadino viene picchiato, umiliato, seviziato da un tutore dell'ordine nell'esercizio delle proprie funzioni non ci dovrebbe essere bisogno di cercare particolari fattispecie di reato. E' tortura e andrebbe perseguita nel modo più spedito e duro.

Grazie, Pier Carlo

Pier Carlo con la madre e il padre

 

Una storia straordinaria fatta di volontà. dolore, passione. E amore, tanto amore.

E' quella che stanno scrivendo Pier Carlo Morello e la sua famiglia (nella foto) e la si può leggere qui, sul Mattino di Padova.

Pier Carlo è un ragazzo autistico "non parlante", ma, dall'altro giorno, è anche dottore in Scienze umane e pedagogiche. Un caso unico.

La mamma di Pier Carlo, il giorno della laurea, ha detto che "la vera conquista di oggi è la speranza di una vita diversa per tutti i ragazzi come lui». Non servono altre parole per capire che tutti dobbiamo gioire per l'alloro sulla testa di Pier Carlo. E che tutti dobbiamo qualcosa a Pier Carlo e ai suoi.

 

La campanella è mia

In questi attimi del passaggio del campanello da Enrico Letta a Matteo Renzi c'è la sintesi plastica di quello che sta avvenendo.

Nessun rispetto reciproco. Nessuna atmosfera da terzo tempo in cui ci si onora reciprocamente, vincente e perdente. Nessun gesto, nemmeno formale, di reale passaggio di consegne.

E' l'esito di un ko violento, con lo sconfitto a terra che sanguina e il vincente che esulta senza nemmeno degnare di uno sguardo l'avversario dolorante.

Un voler dire, da parte di Letta: "Siete arrivati qui giocando sporco".

Un voler dire, da parte di Renzi: "Fatevi da parte, non contate più nulla, ci siamo noi".

E' uno strappo, non una successione.

Uno strappo violento tra il prima e il dopo.

Adesso, da questa violenza, il "dopo", cioè il governo di Matteo Renzi con Angelino Alfano agli Interni, dovrà ricavare la vera forza per fare quello che ha detto. E io spero davvero, ma proprio davvero, che ci riesca.

Altrimenti questi giorni resteranno nella storia solo come un'inutile e un po' bullesca esibizione di forza.  E di questo il nostro paese non ha proprio bisogno.

 

Per poter fare un paragone ecco come avvenne, meno di un anno fa, il passaggio di consegne tra Mario Monti ed Enrico Letta. 

Conflitto

Conflitto di interessi.

Spero che nell'agenda del governo a cui Matteo Renzi sta lavorando non manchi un riferimento preciso alla soluzione di questo problema.

Sicuramente di impatto meno immediato di riforma elettorale, lavoro, Europa... Ma di grande rilievo per il futuro del nostro paese.

Stabilire le regole della partecipazione alla vita pubblica di chi è titolare di rilevanti interessi economici eviterebbe il ricrearsi delle distorsioni che hanno avvelenato l'Italia negli ultimi vent'anni. Di una legge del genere si parla, appunto da vent'anni, ma nessuno è mai stato capace di vararla. Renzi, con la forza che sprigiona, non può non riuscirci.

Spettacolo

Io speravo che Matteo Renzi, diventato segretario del Partito democratico, facesse tre cose.

1. Un lavoro intenso nel partito e per il partito con il fine di costruirgli intorno consenso e fiducia.

2. Un'azione di pungolo del governo, da bravo e concreto azionista di maggioranza della coalizione, per portarlo sulla strada che lui stesso ha tante volte indicato.

3. L'apripista deciso e irremovibile della strada delle riforme, quella elettorale prima di tutto.

Invece, comunque vada a finire, sta accadendo dell'altro e sembra di tornare indietro nel tempo, quando un partito di maggioranza relativa (allora era la Democrazia cristiana) faceva e disfaceva governi, costruiva inutili "staffette" nei palazzi del potere, si occupava più di se stesso che del paese.

Non penso che gli oltre due milioni di italiani che hanno voluto Renzi segretario del Partito democratico volessero assistere a questo spettacolo.