Istantanea Pier Vittorio Buffa

Sensazione di giustizia

Oggi c'è una buona notizia. Il presidente del Senato Pietro Grasso ha preso carta e penna e ha argomentato che non c'è bisogno di leggi per togliere il vitalizio ai parlamentari condannati per reati gravi. Bastano quelle che già ci sono, legge Severino in testa, per consentire a Senato e Camera di provvedere con i loro regolamenti.

La fiducia che i cittadini dovrebbero avere nelle istituzioni passa anche attraverso gesti di questo tipo. Gesti da "buon padre di famiglia" che sa distinguere quel che è bene da quel che è male. Che sa indicare con un solo cenno quali sono i valori da rispettare.

Chi non è degno di sedere in parlamento, ha detto in sostanza Grasso, non può goderne le prerogative.

Speriamo che i due presidenti possano procedere spediti e raggiungere il loro obiettivo. Che non risanerà certo le casse dello Stato ma trasmetterà una bella sensazione di giustizia.

 

 

L'anforetta di Tobruch

A casa, sullo scaffale di una libreria, ho una minuscola anfora dal sapore molto antico e con una etichetta su cui è scritta, a matita, un'unica parola: Tobruch. La riportò mio nonno, nel 1912, dalla Libia dove era andato a combattere e che era appena diventata italiana .

In questi giorni ho guardato spesso quell'anforetta, l'ho tolta dal suo posto e messa sulla scrivania, ho ripensato ai pochi racconti del nonno, sono andato a guardarmi qualche foto e a rileggere qualche pagina su quella conquista e su quello che ne seguì, soprattutto negli anni Venti e Trenta.

Probabilmente finirà davvero che soldati italiani sbarcheranno nuovamente in quella terra, questa volta non per occupare ma per difendere le frontiere meridionali dell'Europa e quelle del nostro paese. Ma la storia di allora e la storia recente dovrebbero avere insegnato che modelli sociali e politici non si esportano, che la pace non si impone, subito,  con le armi. Che la pace, caso mai, la si cerca mediando, aiutando, affidandosi alla forza della diplomazia, della politica. Solo se tutto questo non fosse sufficiente sarebbe forse legittimo usare le armi.

Ecco perché ha fatto bene Matteo Renzi a premere per un'azione diplomatica e quindi, indirettamente, a smentire i suoi ministri che avevano parlato di un'Italia "pronta all'intervento militare".

Filippo Augusto Carbone

carboneLa Gestapo, quando aveva appena diciassette anni, gli aveva piantato un coltello nella lingua per farlo parlare. Ma lui non parlò.

Un cecchino lo colpì a un occhio, il proiettile uscì dalla bocca e nemmeno lui capì come fece a restare vivo.

Per quello che aveva fatto in montagna gli diedero una medaglia d'argento al valor militare. Ma lui la rifiutò dicendo: "Dovete darla a quelli che sono morti, non a me". E ogni 25 aprile andava lassù dove aveva combattuto e aveva visto morire i suoi compagni per portare dei fiori.

Quando finì la guerra andò, con un ammiraglio che era diventato partigiano, in mezzo al mare su una nave da battaglia. Insieme, lui partigiano e l'altro ammiraglio-partigiano, gettarono in acqua una corona di fiori per onorare la memoria del figlio dell'ammiraglio, ufficiale della Regia Marina affondato con il suo sottomarino.

E' anche per tutto questo che non bisogna dimenticare Filippo Augusto Carbone.

Grazie

mattarella

Il significato del primo atto del neo eletto e non ancora insediato presidente della Repubblica Sergio Mattarella, l' omaggio al sacrario delle Fosse Ardeatine, è tutto nella frase a cui ha affidato il perché della sua visita.

"L'alleanza tra Nazioni e popolo seppe battere l'odio nazista, razzista, antisemita e totalitario di cui questo luogo è simbolo doloroso", ha detto Mattarella. "La stessa unità in Europa e nel mondo saprà battere chi vuole trascinarci in una nuova stagione di terrore".

La forza di questo messaggio così limpido non è soltanto nel suo contenuto, nel suo richiamo al passato per vivere e combattere nel presente, nell'irrobustimento delle radici di cui si nutre l'Europa in pace che conosciamo.

La sua forza sta soprattutto nel momento storico in cui quel gesto, quelle parole, quelle lapidi entrano nella case degli italiani.

E' il momento storico in cui, finalmente, si sta guardando con grande decisione al futuro. Si stanno per cambiare le regole della nostra convivenza democratica. Si respira un'aria di maggior fiducia in noi stessi di cui anche l'elezione di Sergio Mattarella è un segnale inequivocabile.

Se si facesse tutto questo lasciando svanire le immagini della nostra storia e dimenticando gli orrori da cui  è rinato il nostro stare insieme pacificamente, si costruirebbe un futuro fragile, vacillante, privo di quel tessuto connettivo che sa tenere unita una comunità anche nei momenti più difficili e terribili.

Ricordare, invece, ciò che è stato, non dimenticare mai come uomini e donne abbiano sofferto e lottato per riconquistare la libertà, è il miglior passaggio di testimone tra le generazioni. Trasmette consapevolezza e forza.

Per questo, ancora prima che salga al Quirinale, dovremmo tutti ringraziare Sergio Mattarella per aver fatto tornare quelle lapidi nelle nostre case.

 

Non bisogna mettersi alle spalle proprio niente

La fondazione Bertelsmann ha pubblicato uno studio su quello che pensano tedeschi e israeliani di se stessi, delle reciproche relazioni, del mondo. E della storia, della memoria dell'Olocausto.

Il dato che ha suggerito ai giornali titoli come "sondaggio shock" è quello che rivela che 81 tedeschi su cento vorrebbero lasciarsi alle spalle la storia dell'Olocausto, non parlarne più, lasciarla ai libri di storia.

Comprensibile che si voglia tagliare con il passato e guardare soltanto avanti. E' il modo forse più efficace per anestetizzare il dolore e i traumi. Non essere continuamente costretti a guardare dentro se stessi alleggerisce la vita. Lo fa ciascuno di noi ogni giorno quando dimentica, non riporta alla memoria i momenti peggiori del proprio passato. Li fa diventare, appunto, storia, non li vive come un presente con cui fare i conti ogni mattina quando si guarda allo specchio.

Ma per la Germania, per l'Olocausto, per tutti gli orrori dei secoli passati e dei secoli a venire non si può fare la stessa cosa.

I tedeschi di oggi, come sa bene chi li governa, hanno il dovere etico e politico di non mettersi alle spalle proprio niente. Hanno, al contrario, il dovere di essere se stessi, con la loro storia, con le terribili sofferenze che hanno inferto e patito, con la forza dimostrata nel guardare nella propria anima. E, con tutto questo, di essere un perno essenziale dell'Europa in pace e un monito straordinario per l'umanità.

E, come loro, nessuno deve mettersi alle spalle proprio niente. Il dolore inferto e patito dai nostri nonni deve vivere al nostro fianco. Dobbiamo studiarlo e farlo studiare. Ricordarlo e farlo ricordare. Dobbiamo, in una sola parola, coltivare la memoria di noi stessi. Non solo oggi, 27 gennaio, giorno dedicato alla Memoria. Ma sempre.

Un giorno uno studente liceale, dopo aver ascoltato racconti sulle stragi nazi fasciste in Italia, ha fatto una domanda semplice e diretta: "Che senso ha ricordare dopo 70 anni? Perché parlare ancora?". Gli è stato risposto così: "Noi siamo qui in mille. Ecco, se uno solo di noi uscirà di qua dicendosi che farà di tutto perché questo non accada più vorrà dire che parlarne oggi ha avuto senso, molto senso".

Ingorgo pericoloso

Il sondaggio elettorale pubblicato dal Corriere della Sera rafforza il carattere cruciale delle settimane che ci attendono.

L'ingorgo lo conosciamo: in pochi giorni andrebbero sciolti (e almeno uno lo dovrà essere per forza) tre nodi, uno più stretto dell'altro: legge elettorale, riforma del Senato e, il più stretto di tutti, l'elezione del presidente della Repubblica.

Quello che dice il sondaggio, Partito democratico indietro di 6 punti rispetto alle Europee e Lega in forte crescita, non può non influenzare scelte e comportamenti. La "forza totale" di Matteo Renzi, a leggere quei numeri, sembra incrinarsi e, di conseguenza, potrebbe risultarne rinvigorita la spinta centrifuga della sinistra del Pd. Con l'ipotesi che nel segreto dell'urna parlamentare si creino alleanze altrimenti imprevedibili, che il percorso parlamentare delle riforme si avviti, che vengano rimessi in discussione gli accordi costruiti in questi mesi.

Una pericolosa prospettiva in una stagione in cui, politicamente parlando, dovremmo pensare a tutt'altro. E a una cosa su tutte: costruire un sistema istituzionale capace di dare una guida sicura al paese.

 

"Non in mio nome"

parma

Di questi giorni terribili e nelle ore in cui tutto il mondo si ritrova a Parigi per marciare contro il terrore c'è una piccola immagine che non dobbiamo dimenticare.
Viene da Parma (quella che pubblico è di Racas ed è tratta dall'edizione di Parma di Repubblica.it) e ritrae un gruppo di musulmani della città sceso in piazza con le bandiere della pace e con cartelli in tutte le lingue: "Non in mio nome, not in my name, pas en mon nom...".

Guardiamoli bene quei volti. Cogliamo il dolore che esprimono, il disagio, la paura. E il messaggio che ci mandano. Un messaggio semplice ma che rischia di essere disperso dalla violenza e dall'odio.

"Il mondo", ci dicono i musulmani di Parma, "non si divide tra musulmani e miscredenti, ma tra chi ama la vita e chi cerca solo la morte".

Lo sapevamo, ma grazie per avercelo ricordato, fatelo sempre.

 

Non servono eroi

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Dedico il primo post del 2015 a Fabrizio Pulvirenti, il medico di Emergency colpito da Ebola che, appena guarito, ha detto di voler tornare in Sierra Leone per finire il proprio lavoro.

Il dottor Pulvirenti ha detto di se stesso: "Non sono un eroe, ma un soldato ferito".

A ben pensarci è la definizione più bella che un uomo possa dare di se stesso.

Gli eroi, nel mito classico, erano "esseri semidivini dotati di eccezionali virtù", poi sono diventati coloro che danno "prova di straordinario coraggio e generosità, che si sacrificano per un ideale" (definizioni del Grande dizionario del De Mauro). Insomma, persone fuori dalla norma, quasi inimitabili.

Il "soldato ferito", invece, è una figura meno lontana da ciascuno di noi. "Soldati feriti", se compiamo il nostro dovere, possiamo esserlo tutti.

Definendosi così Fabrizio Pulvirenti ci ha fatto dono della sua terribile e straordinaria esperienza che, in questo modo, diventa patrimonio di tutti. E ci ha detto che per far girare il mondo nel verso giusto servono solo persone normali, con un  coraggio normale, con una coscienza del proprio dovere normale.

E a noi che abbiamo cominciato l'anno con le tristi polemiche sui vigili romani questi concetti semplici e, per certi versi, banali, non possono che avere un sapore rivoluzionario.

 

Le Regioni del futuro

cartinaA vedere la cartina che illustra la proposta di modifica dei confini delle Regioni preparata da Roberto Morassut e Raffaele Ranucci, si può restare davvero perplessi: il Triveneto tutto assieme, Viterbo e Umbria con la Toscana, la val d'Aosta con la Liguria, Latina con Napoli... Sembra la cartina di un nuovo Risiko piuttosto che una proposta seria.

Invece va osservata con attenzione, vanno lette le argomentazioni di chi sostiene che sia necessario mettere mano all'organizzazione delle Regioni.

Nicola Zingaretti, presidente del Lazio osserva che "Le circoscrizioni regionali furono definite in un’altra era... I confini regionali non corrispondono più necessariamente ad ambiti ottimali per il buon governo".

Sergio Chiamparino, alla guida del Piemonte, lo aveva preceduto con un chiaro "Siamo pronti a discutere sulla riduzione delle regioni".

L'obiettivo dichiarato è quello di arrivare a un sistema regionale più efficiente e razionale. Si dovrebbero cioè poter fare le cose meglio e con una spesa inferiore.

Una "riforma" del genere può incontrare sul proprio cammino grandi resistenze: dal semplice campanilismo alla brutale difesa di interessi consolidatisi negli anni.

Quindi è soltanto un bene che, in questa stagione che vuole essere una stagione di grandi cambiamenti, se ne parli in termini così concreti.

E se campanilismi e interessi consolidati mostreranno le loro armi vorrà dire che la strada intrapresa è quella giusta.

I fucilati dimenticati

Stuppia_D8E1987Nelle ultime settimane mi sono occupato di un qualcosa, molto brutto, accaduto un secolo fa. Le fucilazioni dei soldati italiani accusati, durante la Grande Guerra, di diserzione o codardia. Ne è nato un ampio servizio per l'Espresso in edicola questa settimana e che lo ha pubblicato, insieme a un certo numero di documenti, sul sito.

Il senso di un lavoro del genere è presto detto.

Conoscere, sapere, rimettere a posto le cose della nostra storia aiuta a costruire un memoria condivisa del nostro passato. E, quindi, aiuta a costruire meglio il nostro futuro.

Oggi i 750 soldati fucilati dopo i processi, più i mille e mille uccisi per decimazione dei reparti o sommariamente, in trincea, non sono nemmeno considerati vittime di guerra. Semplicemente, non esistono: negli elenchi dei caduti, negli albi d'oro, sui monumenti.

Eppure venivano uccisi soprattutto per dare l'esempio, perché la loro morte servisse di incitamento ai compagni per andare avanti, a combattere e morire. E quindi anche loro, i fucilati, hanno contribuito, con il loro sacrificio, alla "vittoria finale". Sono anche loro, a pieno titolo, vittime di quella terribile guerra.

Riconoscerlo ufficialmente, vuol dire, per uno Stato e per una comunità, mettere un importante mattone alla costruzione comune.

E questo, anche se si parla di vicende di un secolo fa, non è cosa da poco. Perché quella dei fucilati è, come tante altre, una questione che ancora divide, che è ancora irrisolta nella coscienza nazionale. Non è ancora, appunto, una memoria condivisa. E dopo un secolo, come è già successo in altri paesi, è proprio tempo che lo diventi.

(l'immagine del documento è stato concessa dall'Archivio centrale dello Stato, ne è vietata la riproduzione)

 

Alla radice del marcio

Tra le tante intercettazioni ambientali che suffragano la "grande retata romana" ne ho scelta una. Per concentrarsi bene, per capire, dalle poche parole che dice un braccio destro di Massimo  Carminati, di cosa si sta parlando, di cosa si occupavano gli accusati, quali erano gli interessi che arrivavano al cuore della politica della capitale del nostro paese.

"Si fanno più soldi con gli immigrati che con la droga".

Soffermiamoci su questo concetto, cerchiamo di coglierne la forza eversiva.

E diciamoci con grande franchezza che chiunque  cercasse di ridurre quello che è successo a Roma a un problema locale o, ancora peggio, semifolcloristico, sarebbe decisamente fuoristrada.

La qualità e l'intensità del disegno criminoso richiedono la massima attenzione, a tutti i livelli.

Bene ha fatto la presidente della Camera a intervenire con decisione.

Bene farebbero governo e ministri interessati a mettere in campo tutte le risorse possibili per andare alla radice del marcio.

Prova di maturità 2

Una prova di maturità semplice semplice. Fare in modo, subito, che non possano più essere pronunciate sentenze come quelle sulla vicenda dell'eternit.

Che non sia più possibile che una persona condannata a 18 anni di reclusione perché riconosciuta colpevole di un grave reato venga poi mandata assolta non perché viene dimostrata la sua innocenza, ma perché il reato è prescritto, cancellato dallo scorrere del tempo.

Non serve infilarsi in complessi ragionamenti giuridici, ed è sterile ricordare come e perché la legge che stabilisce questi termini di prescrizione venne approvata mentre a palazzo Chigi c'era Silvio Berlusconi, nel dicembre 2005.

L'attuale capo del governo ha già dichiarato che vuole cambiarla, questa legge.

Lo facciano subito, che sia questione di settimane, non di mesi o di anni.

Per rispetto verso i morti dell'amianto e verso noi stessi.

Prova di maturità

Una prova di maturità.

Ecco cosa saranno le dimissioni di Giorgio Napolitano.

Prova di maturità per un Parlamento che sta cercando di cambiare le regole di funzionamento della nostra Repubblica.

Prova di maturità per il presidente del consiglio-segretario di partito Matteo Renzi.

Prova di maturità per Beppe Grillo e i suoi parlamentari.

Prova di maturità anche per il più anziano di tutti degli attori in scena, Silvio Berlusconi.

La supereranno a pieni voti se riusciranno a eleggere il prossimo presidente della Repubblica al primo scrutinio, con i due terzi dei voti.

Non è una questione formale o aritmetica. Il prossimo presidente, se tutto andrà come prevede Matteo Renzi, dovrà mettere la propria firma a leggi, come la riforma elettorale e le modifiche della Costituzione, che modificheranno profondamente l'assetto istituzionale del paese e che, probabilmente, daranno davvero vita a una Seconda Repubblica.

L'elezione con una larga maggioranza metterebbe il nuovo presidente nelle condizioni migliori per esercitare il delicato luogo di arbitro super partes che lo attende. Ma richiederebbe anche a ciascuno degli attori di rinunciare a un pezzetto di tornaconto di parte per  perseguire un bene comune.

In questo sta la prova di maturità.

Cucchi, il messaggio peggiore


L'assoluzione degli imputati al processo d'appello per la morte di Stefano Cucchi manda un messaggio inequivocabile a tutti noi: "Attenti, non seguite con serenità un carabiniere e un poliziotto, non andate in caserma per un accertamento sicuri che sarete trattati con rispetto e secondo la legge. Se potete sottraetevi, accampate scuse, opponete resistenza. Perché se subirete violenze o ingiustizie nessuno vi proteggerà, nessuno punirà i colpevoli".

Ecco, un messaggio così è il messaggio peggiore che una sentenza pronunciata in nome del popolo italiano possa trasmettere.

Perché è un messaggio di inciviltà, di barbarie, di ingiustizia profonda.

Non serve dimostrare chi e cosa ha ucciso Stefano per mandare in galera chi ha abusato del proprio potere e della propria divisa. Dovrebbe bastare un solo pugno, un solo calcio sferrato a una persona custodita in nome della legge per decretare l'immediata punizione del responsabile. E pugni e calci Stefano li ha subiti, ci sono le foto del suo corpo a dimostrarlo oltre ogni ragionevole dubbio.

Adesso la parola spetta alla Corte di Cassazione. Speriamo davvero che rimetta le cose a posto. Perché io, come spero tutti noi, voglio che i cittadini del nostro paese possano entrare in  una caserma o in un tribunale sicuri di essere trattati con rispetto e secondo la legge. Sempre.

Un po' di colpa è di ciascuno di noi

roma-napoli

A chi fosse sfuggita segnalo questa bella iniziativa di due scuole medie, una di Roma e una di Napoli. Gli insegnanti hanno fatto una cosa molto semplice. Hanno chiesto ai ragazzi di parlare, con un disegno, di una partita di calcio che ci sarà questa settimana. La prima tra Napoli e Roma dopo l'omicidio del tifoso napoletano Ciro Esposito del quale è accusato il romanista Daniele De Santis.

I ragazzi, con le matite colorate, hanno costruito un inno all'amicizia e al bello sport.

Questi disegni vanno guardati e riguardati, mandati a memoria, direi. Perché descrivono un  mondo che non riusciamo a costruire. E se non ci riusciamo un po' di colpa, anche piccola piccola, è di ciascuno di noi.