Istantanea Pier Vittorio Buffa

Il giorno della foto di Licio Gelli

gelli

Quando Andrea Iannuzzi (direttore dell'Agl, l'agenzia centrale del gruppo di cui fa parte il giornale che ospita questo blog) mi ha chiesto un articolo su Licio Gelli la mia memoria è andata immediatamente a quel giorno. Il giorno in cui incontrai il maestro venerabile in tribunale: io imputato, lui querelante. Il giorno in cui venne scattata la prima fotografia di Licio Gelli pubblicata dai giornali.
Ecco l'articolo.

Era la primavera del 1977. Licio Gelli arrivò al secondo piano del palazzo di giustizia romano, a piazzale Clodio, accompagnato solo dal suo avvocato. In giacca e cravatta, senza soprabito. Nell’aula di tribunale, quel giorno, non entrò come imputato ma come parte civile in un processo per diffamazione che aveva intentato contro di me e il direttore dell’Espresso, Livio Zanetti, per un articolo uscito l’anno prima.

Nessuno aveva previsto che quell’uomo misterioso, di cui si andava poco a poco scoprendo l’inquietante biografia, si presentasse davvero davanti ai giudici. I nostri avvocati non lo avevano nemmeno ipotizzato e io restai sorpreso nel trovarlo in tribunale. Non ci presentammo, ciascuno si sedette dalla propria parte e l’udienza durò un battito di ciglia. Ma avevo davanti Gelli, io non lo avevo mai visto in faccia perché non erano mai state pubblicate sue fotografie. Così, prima che il giudice ci convocasse, infilai un gettone nel telefono pubblico più vicino e chiamai un amico che abitava a Corso Francia, Andrea Ponticelli. In quel momento faceva il fotografo, poi nella vita ha fatto tutt’altro. Arrivò in tempo, quando Gelli ancora passeggiava nell’ampio corridoio, e scattò. Una, due, tre volte. Il mio amico stampò uno di quegli scatti, con il maestro venerabile della loggia P2 preso di tre quarti. Lo vendette per poche migliaia di lire a qualche giornale e poi cambiò mestiere.

Ma Gelli aveva costruito intorno a sé una barriera così robusta che quell’immagine rubata a piazzale Clodio restò l’unica in circolazione. Anno dopo anno appariva sempre più spesso sui giornali italiani poi, dopo la scoperta degli elenchi della P2, nel 1981, la rividi su quotidiani e settimanali di tutto il mondo. Era diventata l’icona del malaffare italiano, l’icona di un mondo che agisce nascondendosi, l’icona delle consorterie che cercano di governare dall’ombra i destini di un paese. L’articolo che aveva spinto Gelli a querelare l’Espresso e a salire i gradini di piazzale Clodio era un normale articolo scritto da un giovane cronista che era andato in giro a documentarsi.

Nessuno scoop, niente documenti riservati. Solo notizie messe in fila. Rileggendole oggi monta una gran rabbia. Se un cronista poteva scrivere, nel 1976, che la loggia P2 di Gelli aveva ramificazioni in tutto il mondo e che era, probabilmente, una sorta di potente e segreto collegamento tra gruppi eversivi e potentati economici, come poi è stato dimostrato, vuol dire che la loggia P2 era molto, molto di più. Se un cronista poteva scrivere queste cose con così tanto anticipo rispetto all’esplodere vero dello scandalo, vuole anche dire che la trama di menzogne che ha accompagnato tutta la vicenda della P2 era fitta e robusta.

Chi era andato a prestare giuramento a Gelli, nella sua famosa suite dell’Excelsior, come ha poi potuto dire che non immaginava cosa veramente fosse la P2? A cadere dalle nuvole? Quello che i giornali avevano anticipato era, del resto, diventato anche materia di inchieste giudiziarie. Una per tutte quella di Bologna dove, nella seconda metà degli anni Settanta, si indaga sulla strage del treno Italicus (4 agosto 1974). Il giudice istruttore Angelo Vellaapprofondisce eventuali connessioni tra la loggia e gli autori della strage.

Non emergono fatti di rilevanza penale ma Vella scrive nella sua ordinanza (l’Espresso ne dà notizia nel settembre 1980, quindi prima del ritrovamento degli elenchi) che la “P2 è all’epoca dei fatti il più dotato arsenale di pericolosi e validi strumenti di eversione politica e morale; e ciò in incontestabile contrasto con le proclamate finalità statutarie della istituzione”. Come si poteva, dunque, non sapere? Come si poteva pensare di iscriversi a qualcosa di simile a una bocciofila? Della lista della P2 trovata a Gelli e diffusa nel maggio 1981 facevano parte 962 persone. Comprendeva ministri e sottosegretari in carica, generali dei carabinieri, della Guardia di Finanza, dell’esercito, dell’aeronautica, della marina. E poi Silvio Berlusconi, Vittorio Emanuele di Savoia, Maurizio Costanzo… e tanti, tanti altri.

 

 

La nostra guerra

151207_D8E4189

Per due giorni ho passeggiato tra i resti delle trincee della prima guerra mondiale, tra il Carso, il Sabotino e il Monte Santo. Nel guardare e toccare quei sassi  (nella foto un tratto della trincea delle Frasche, sul Carso), nell'osservare i varchi attraverso i quali i cannoni sparavano, nel consultare cartine che spiegavano attacchi e ritirate non sono stato attratto dalla voglia di ricostruire battaglie o ricordare singoli episodi. Perché mentre ero lì, immerso in un silenzio profondo e denso, pensavo più alla strage di San Bernardino e a quella del Bataclan che alle stragi di fanti e bersaglieri.

Eppure della guerra di un secolo fa stavo avendo una percezione concreta, direi tattile. Potevo descrivere a me stesso l'orrore di allora, immaginare la terra insanguinata e il rombo delle artiglierie. Fu una guerra guerra. Tutti lo sapevano un  secolo fa, tutti lo hanno saputo per i decenni successivi, tutti lo sapranno per i secoli a venire.

Poi sono arrivato al cippo Slataper, lungo la strada che sale sul Calvario-Podgora. Il piccolo monumento ricorda i due Slataper, padre e figlio, uno ucciso su quel piccolo monte nel 1915, l'altro ucciso in Russia nel 1943. Due storie individuali emblema delle sofferenze di due generazioni. Lì davanti sono rimasto più del necessario e dentro di me hanno iniziato a girare ancora più vorticosamente le immagini di queste ultime settimane.

Quella che stiamo vivendo sarà mai ricordata come una guerra guerra? Siamo davvero coscienti, tutti noi, che quello che sta accadendo non è una cosa "altra" rispetto alla nostra vita, al nostro presente e al nostro futuro?

Conservando i campi dove ci si uccideva un secolo fa, passeggiandovi, portandovi amici e scolaresche si coltiva la memoria. Ma coltivare la memoria senza trarne forza per capire il presente e agire di conseguenza è un esercizio sterile.

Quella che stiamo vivendo è una guerra vera, la nostra guerra. Una guerra senza fronti delineati e senza mappe militari. Una guerra che non si combatte solo con mitra e bombe, ma alla quale può partecipare ciascuno di noi senza bisogno di dare la vita come fecero gli Slataper.

Combattere, oggi, vuol dire non stare dalla parte di chi vuole radicalizzare il mondo, di chi vuol mettere i buoni (noi occidentali) da una parte e i cattivi (i musulmani senza molte distinzioni) dall'altra.

Combattere vuol dire sforzarsi di ragionare e  capire. Cercare di condividere principi e valori con più gente possibile, senza distinzioni.

Combattere vuol dire togliere forza a chi vuole odio. Perché l'odio porta con sé la morte e coltivandolo si combatte al fianco dei nostri avversari, che l'odio alimentano giorno per giorno..

 

 

 

Effetto medioevo

fittipaldiIn giacca e cravatta di fronte al tribunale del papa. Sul banco degli imputati. Accusati di avere fatto un qualcosa che nelle costituzioni viene sancito come diritto fondamentale. Accusati di aver pubblicato delle notizie.

Quello a cui sono stati sottoposti i giornalisti Emiliano Fittipaldi e Gianluca Nuzzi è una sorta di viaggio nel tempo. Ma indietro, di secoli. Quando la Chiesa processava con i suoi canoni, incurante del mondo che, a fatica, marciava verso il futuro. Insomma una sorta di "effetto medioevo" dal sapore amaro, ancora più amaro perché la Chiesa sta vivendo una straordinaria stagione di apertura e rinnovamento.

Sarebbe stato bello, e avremmo parlato di "effetto futuro", se il lavoro dei due giornalisti fosse servito a far partire una grande operazione di pulizia interna.

La guerra è contro il mondo

AFP3809986_ArticoloLa rabbia tracima, la consapevolezza di trovarsi in mezzo a una guerra è sempre più forte. Mi guardo intorno e cerco qualcosa che possa indicare una via di salvezza, un qualcosa che rischiari il buio in cui sembra si stia precipitando.

Non lo trovo nelle scariche di odio rovesciate verso tutto quello che, anche solo da lontano, sa di islamico. Sono cresciuto con un concetto antico e semplice: odio genera odio. E quando posso cerco di interrompere quell'inesorabile catena.

Lo trovo invece nei milioni e milioni di islamici che, esattamente come noi, sono lontani migliaia di miglia dal terrorismo. Lo dicono, lo scrivono, scendono in piazza. E tutti dovrebbero ascoltarli di più, sentirli fratelli.

Se questa è una guerra non è una guerra di religione. Ma una guerra del terrorismo al mondo. E noi, tutti noi che vogliamo vivere in pace (musulmani, cristiani, atei, indu...), siamo il mondo.

 

Paura di Roma

      • A Roma, a Trastevere, l'altra sera, c'è stata una riunione del Pd sul dopo Marino. Una riunione a dir poco molto animata, presente Fabrizio Barca. Riferisce sull'Huffington Post Claudio Paudice : "Nicola, un altro militante, nel suo intervento prova a sollecitare la sua candidatura (di Barca a sindaco Ndr): "Noi ora ci aspettiamo che dopo tutto questo, tanti dirigenti del Pd si propongano per raccogliere l'eredità lasciata a Roma dal Pd, anche da te ce lo aspettiamo Fabrizio". Il messaggio è chiaro, ma Barca con un gesto della mano come per dire 'siete pazzi' non lascia spazio a molte speranze. Risposta esaustiva".

 

      • Nel Pd, da qualche giorno, sono in molti a immaginare un partito che, a Roma, si faccia da parte. Dobbiamo rigenerarci, è pressapco il ragionamento, un passo di lato e appoggiamo dall'esterno persone forti e per bene che vogliano prendere in mano la città, facciamo un bagno di purificazione, una sorta di ammissione dei nostri errori che ci ridia un'immagine credibile.

 

      • Beppe Grillo dice che se vinceranno loro saranno lacrime e sangue, ci saranno scioperi, la gente perderà il lavoro. Una sorta di day after che equivale a dire: attenti, non vi conviene mandarci al Campidoglio. O, ancora meglio: noi al Campidoglio non ci vogliamo andare, mica siamo matti del tutto.

 
Ecco, bastano queste tre pillole per capire quello che sta succedendo a Roma nei giorni in cui si sta celebrando il processo per Mafia Capitale e sono iniziati i giochi per la successione a Marino.

C'è paura, tanta paura di raccogliere un'eredità pesantissima, di bruciarsi in modo indelebile o di finire di bruciarsi del tutto. Si, Roma fa paura.

Ma chi governa il paese non può permettersi di averne. Quindi sarebbe bene che il partito di cui il presidente del Consiglio è segretario faccia subito le sue scelte senza delegarle e senza tergiversare. Per proporre per la guida della città la squadra più efficiente e seria di cui dispone.

E nemmeno chi è all'opposizione può permettersi di giocare con le parole e correre per non vincere. Un'opposizione seria, da che mondo e mondo, deve essere pronta a governare e a rischiare di bruciarsi.

 

"I'm sorry"

BlairLeggendo quello che ha detto alla Cnn l'ex premier britannico Tony Blair si possono provare sentimenti molteplici e contrastanti.

Io, in rapida sequenza, ne ho provati due.

Il primo e' stato di ammirazione. Un leader politico che ammette con tanta chiarezza i propri errori e' davvero cosa rara. Un'onestà intellettuale che disarma per la sua limpidezza e forza. E viene subito da pensare: ce ne fossero in giro per il mondo e da noi uomini capaci di simili gesti. Ciascuno di noi, e la stessa storia, ne trarrebbe grande beneficio.

Il secondo e' stato un sentimento di profonda rabbia. Ma come, il leader di uno dei paesi piu' potenti del mondo ammette cosi', candidamente, che i servizi segreti di Sua Maestà hanno fatto cilecca? Dice che, in effetti, le armi di distruzione di massa non c'erano proprio in Iraq. E che quello che sta succedendo adesso, Isis e via dicendo, e' conseguenza diretta di quegli errori ("the 2003 invasion of Iraq was the principle cause of the rise of ISIS").

E no signor Blair, se pensa di essersi lavato la coscienza ammettendo di aver sbagliato incorrerebbe in un altro grave errore. Dalle sue parole ci sono da trarre molti insegnamenti.

Mai accettare in silenzio quello che poteri forti e all'apparenza indiscutibili, sostengono.

Sempre dubitare, sempre andare a vedere, sempre combattere per un mondo più trasparente e più giusto.

Chiedere a gran voce che i tribunali chiamati a giudicare i crimini di guerra non giudichino solo chi le guerre le perde.

E questo in nome delle centinaia e centinaia di migliaia di morti che la guerra voluta da George W. Bush e Tony Blair ha direttamente e indirettamente provocato.

Tremila euro di troppo

Si, forse è vero. Poter pagare in contanti fino a tremila euro darà una spinta ai consumi e una mano, quindi, alla ripresa economica.

Ma per un cittadino che non ha nulla da nascondere e che dispone di denaro di provenienza  lecita e tracciata è sostanzialmente indifferente pagare con banconote, carte di credito, bancomat, assegni. Anzi non avere l'onere di portare in giro contanti fa spesso pagare volentieri le piccole commissioni talvolta collegate alla moneta elettronica. Se può e vuole spendere spende. Altrimenti si tiene i propri soldi

Spenderà invece di più, e più facilmente, chi ha pacchi o pacchetti di banconote in casa. Banconote che non potrebbe versare o utilizzare se non a piccole dosi. Banconote che arrivano da grandi e  piccole evasioni, da quell'economia sommersa che tiene in piedi il paese ma che ne è anche una malattia profonda.

Raffaele Cantone, presidente dell'Anac, l'Autorità nazionale anticorruzione ha dichiarato di essere assolutamente contrario all'innalzamento del tetto: "Credo che la norma precedente avesse un valore soprattutto simbolico, ma questa scelta è sbagliatissima. La lotta all'evasione ha bisogno di una stabilità normativa, di scelte chiare e continue. Non di sali e scendi".

Parole chiare e nette, da sottoscrivere.

 

 

 

Strategia della tensione

E' stata una fitta  alla bocca dello stomaco. Immediata, intensa, brevissima. L'ho provata quando, dopo aver ho letto le prime notizie in arrivo da Ankara sulla bomba, ho guardato il breve video girato da uno dei manifestanti.

Ragazzi che manifestano cantando. E poi l'esplosione, terribile, devastante.

Come in Italia tanti anni fa. A Brescia, a Milano, sui treni... Io allora avevo vent'anni, come i ragazzi di Ankara. E la mia generazione visse quelle bombe come una terribile ferita alla nostra convivenza pacifica e civile.

Le chiamarono le bombe della strategia della tensione. Una strategia ideata e realizzata da forze oscure, collegate con gangli vitali dello Stato. Per terrorizzare, destabilizzare, tenere lontani dal potere gli italiani, comunisti o no, che volevano un'Italia migliore. Davvero democratica, rispettosa e garante dei diritti di tutti.

Quella strategia, alla fine, venne denunciata, combattuta, sconfitta. A caro prezzo e dopo non pochi anni.

In Turchia i cittadini sanno già quello che è successo davvero ad Ankara. Sono scesi in piazza, poche ore dopo, gridando "Stato assassino".

L'augurio è che facciano prima, molto prima di noi a sconfiggere la loro strategia della tensione. Per riprendere a cantare dal punto in cui si sono interrotti neri mattina.

 

Parole al vento

E' successo lontano da noi, nel nord dell'Afghanistan. Gli americani, durante un bombardamento, hanno praticamente distrutto, a Kunduz, un ospedale di Medici senza frontiere uccidendo decine di persone.

Il portavoce statunitense in Afghanistan, colonnello Brian Tribus, ha ammesso che: "Le forze americane hanno condotto un attacco aereo nella città di Kunduz alle 2.15 (ora locale) contro individui che minacciano le forze. L'attacco potrebbe avere provocato danni collaterali a una struttura medica vicina".

Il governo afgano sostiene che in quell'ospedale si nascondevano dei terroristi.

Medici senza frontiere dice che si, certo, nell'ospedale di Kunduz, che è zona controllata dai talebani, c'erano talebani nell'ospedale, ma feriti e senza armi. E che tutti, statunitensi compresi, sapevano e sanno, con tanto di precise coordinate geografiche, che lì c'era un ospedale. Parliamone allora, non lasciamo che notizie così vengano archiviate come "cose che accadono dove si combatte".

Diciamo, con la voce più alta che possiamo, che non può e non deve accadere che un ospedale venga bombardato, malati, medici e infermieri uccisi. Pretendiamo che la supertecnologia militare non serva solo a uccidere meglio, ma anche e soprattutto a non uccidere. Chiediamo che il termine "danno collaterale" venga abolito dalla terminologia militare.

Probabilmente, anzi, quasi sicuramente, saranno parole al vento. Ma è anche capitato che le parole, sospinte proprio dal vento che hanno generato, abbiamo dato, da qualche parte, frutti sani.

La lezione di un premio

LK158889L'ultimo fine settimana è stato il fine settimana del premio Pieve-Saverio Tutino. Un premio particolare, indetto dall'Archivio diaristico nazionale, assegnato al diario di un italiano, un diario scelto la mattina della domenica tra gli otto selezionati da una appassionata giuria tra i più di cento che  vengono spediti ogni anno nella cittadina toscana per partecipare.

Quest'anno ha vinto un diario scritto da un ragazzo morto a 21 anni, nel 1918, dopo aver respirato gas asfissianti sul fronte dell'Isonzo. Si chiamava Giuseppe Salvemini e le sue parole sono state fatte riemergere dalle stanze di famiglia da una nipote.

Ma diari e memorie non vuol dire solo riportare a noi un passato lontano, cosa che, da sola, ha giù un valore straordinario.

Diari e memorie, a Pieve, vuol dire anche parlare dell'oggi con pacatezza e profondità, dando spazio di riflessione a esperienze altrimenti destinate a passare davanti a noi senza lasciare traccia.

Tra i diari finalisti c'era quello di un chirurgo italiano nemmeno quarantenne, Giuseppe Novelli, che l'anno scorso è stato per un mese in Burundi. Laggiù ha tagliato, cucito, salvato vite cacciando dentro di sé la disperazione che lo assaliva nel vedere quello che vedeva. Ha scritto, dice, come per sopravvivere.

E c'era quello di una ragazza sedicenne, Caterina Minni, che ha combattuto contro l'anoressia e lo racconta con parole semplici e dirette come quelle che si sanno scrivere solo quando si è sinceri soprattutto con se stessi.

Due giorni prima, nella piazzetta accanto a quella, grande, della giornata domenicale, è stato assegnato un altro premio a un giornalista trentunenne, Nicolò Giraldi, il premio Tutino giornalista. Cosa ha fatto Giraldi per meritare questo riconoscimento? Se ne è partito a piedi da Londra per arrivare a Trieste percorrendo tutta la linea del fronte della Grande Guerra. Per vedere, ascoltare e raccontare cosa è rimasto nelle persone di oggi quello che accadde un secolo fa.

A far diventare tutto questo un evento "particolare" e "unico" è la voglia di partecipare e ascoltare delle centinaia di persone presenti. Era tempo che non mi capitava di vedere folte platee ascoltare in silenzio appassionato, e per ore, piccole storie individuali. Una capacità di ascolto e partecipazione che è una potente lezione di convivenza e civiltà.

"Massacrato di botte"

Dunque ci sarebbero le "botte", le "botte" subite in una caserma dei carabinieri all'origine della morte di Stefano Cucchi.

Lo dicono in maniera chiara e netta due militari dell'Arma ascoltati dai difensori della famiglia del ragazzo morto all'ospedale Pertini il 28 ottobre 2009. Certo, adesso si dovranno attendere le decisioni dei magistrati, ma quello che dicono i due carabinieri, un uomo e una donna, è quello che tutti noi abbiamo pensato vedendo il corpo martoriato di Cucchi.

Perché negare? Perché coprire? Perché non ammettere subito quello che affermano oggi i due testimoni della difesa, cioè che i carabinieri che avevano in consegna Cucchi "non si erano regolati", avevano esagerato con le "botte"?

I responsabili avrebbero subito pagato per quello che è uno dei reati più pericolosi per la salute di una democrazia, l'abuso del potere affidato dallo Stato a un proprio cittadino per far del male, picchiare, torturare.

Stefano Cucchi e i suoi familiari avrebbero avuto giustizia.

Il rapporto di fiducia tra i cittadini e le forze dell'ordine sarebbe, paradossalmente, cresciuto.

E invece, siamo qua, dopo sei anni ad aspettare la verità che, se arriverà, arriverà dopo lunghi slalom tra menzogne e reticenze andati avanti solo grazie alla tenacia della sorella di Stefano, dei suoi familiari, dei suoi amici vecchi e nuovi.

Questo, in una comunità con anticorpi efficienti, non dovrebbe proprio accadere. Mai.

Il bimbo con la maglietta rossa

IndependentLa fotografia del corpicino senza vita di un  bambino non andrebbe pubblicata. Per rispetto verso il piccolo essere umano che non c'è più, verso chi lo ha messo al mondo, verso tutti gli altri bambini, verso noi tutti.

Ma per il bimbo con la maglietta rossa della spiaggia di Bodrum è diverso.

Il quotidiano inglese The Independent l'ha pubblicata pensando soprattutto al premier David Cameron, per dire che non si può più far finta di niente, che è il momento di agire.

Noi che viviamo sul pezzo di terra europea che da più tempo e più di tutti è prima meta dei migranti ne abbiamo viste tante di immagini simili. Corpi messi in fila sulle spiagge di Sicilia. Corpi alla deriva. Corpi ammassati nelle stive. Non dovrebbe impressionarci la foto del bimbo dalla maglietta rossa.

Invece non riusciamo a staccare gli occhi dalla testolina riversa, dalle piccole braccia inerti, dalle scarpe piantate nella sabbia. Perché un bimbo che muore fuggendo dalla Siria per cercare di andare in Grecia, poi forse in Ungheria, in Germania, in Inghilterra è il simbolo di una guerra globale in cui non ci saranno mai vincitori.

E dire guerra globale vuol dire guerra in cui tutti devono fare la propria parte. La nostra, quella di ciascuno di noi, è capire per davvero che gli uomini e le donne che bussano alle nostre porte non sono estranei in arrivo da un altro pianeta. Sono vittime del mondo che noi stessi abbiamo contribuito a creare e a loro dobbiamo rispetto e affetto. Un'affermazione inutile e retorica? No, rivoluzionaria.

Una questione cruciale

Ancora una volta un nodo politico sta arrivando ai cittadini, agli elettori, come uno dei tanti scontri tra partiti o fazioni di partiti e non per quello che è: una questione cruciale per il futuro del nostro paese.

Mi riferisco all'elezione dei senatori che in queste giornate agostane è oggetto di una prova di forza di Matteo Renzi contro tutti gli altri, dentro e fuori il suo partito.

I termini della questione, ridotti all'osso, sono semplici. Il Senato deve discutere e approvare la riforma della costituzione che prevede l'abolizione del bicameralismo perfetto (quasi tutte le leggi verranno approvate dalla sola Camera) e l'elezione indiretta dei senatori. Sul primo punto non ci sono discussioni. Lo scontro è sul secondo, e va avanti da mesi.

Chi vuole, al contrario di quello che prevede adesso il disegno di legge,  l'elezione diretta dei senatori sostiene che la nuova legge elettorale (il cosiddetto Italicum) formerà una Camera sostanzialmente di nominati guidata dal partito che avrà conquistato il premio di maggioranza. E sarà questo partito ad avere di fatto in mano una gran quantità di poteri  che arriva fino all'elezione del presidente della Repubblica e alla nomina dei giudici costituzionali. Un sistema siffatto ha assoluto bisogno di un Senato che, benché escluso dal normale processo di formazione delle leggi, abbia forti poteri di controllo e un'autonomia e una forza che solo un mandato diretto degli elettori  può conferirgli.

Questo, in massima sintesi, sostiene chi, anche dall'interno del Partito democratico, chiede una revisione della legge in questo senso.

Un'esigenza che, personalmente, avverto come davvero essenziale per far nascere un sistema che sappia dare stabilità e forza all'azione di governo all'interno di un equilibrato meccanismo di controlli e contrappesi.

E l'arrivare o meno a una soluzione del genere è davvero una questione cruciale.

Fiumicino, individuare i responsabili

A parlare dell'incendio che ha mandato in tilt l'aeroporto di Fiumicino si rischia  il qualunquismo. Non funziona niente, basta un po' di fumo per bloccare tutto, ma i politici cosa fanno...

E' vero. Ma se si guarda bene il filmato qui sopra e si legge con attenzione l'indagine che Carlo Bonini ha fatto per Repubblica si capisce che quello che è successo (o che poteva succedere) è davvero molto grave. L'incendio dell'altro giorno ha fatto scoprire cose che in un paese civile e ben organizzato non dovrebbero proprio accadere. Come si fanno a lasciare incustoditi ettari ed ettari di terreno decisamente infiammabile intorno a un aeroporto come il Leonardo da Vinci? Come si fa a chiudere la caserma dei pompieri? Com'è possibile che i primi mezzi aerei per spegnere le fiamme siano arrivati quattro ore dopo l'allarme?

Queste non sono casualità o semplici inadempienze. Sono scelte politico-amministrative con dei responsabili che vanno individuati e puniti.

Chi deve farlo? Il governo? la Regione? Non lo so, ma qualcuno tra coloro che devono gestire la cosa pubblica lo faccia. Altrimenti ben venga un magistrato che metta sotto processo chi, con le sue decisioni, non ha impedito disastri come questi. La sua azione non sarà un'invasione di campo ma la prova dell'incapacità di chi abbiamo messo a guidare il nostro paese.

 

Renzi diverso da Berlusconi


civati

Foto del giorno per Pippo Civati, fondatore di "Possibile", mentre dice che "quella di Renzi non è più neppure un'evoluzione del berlusconismo, è Berlusconi".

E' vero che in politica si può dire tutto e il contrario di tutto, che le esagerazioni sono lecite, che si può esemplificare al massimo per farsi capire.

E' vero che non è difficile ravvisare in certi comportamenti di Matteo Renzi tecniche di comunicazione di stampo berlusconiano.

E' vero che non è difficile intuire nell'azione di Renzi la voglia di diventare un asso pigliatutto, capace di puntare dritto al proprio tornaconto e alla propria immagine.

Ma da qui a dire che Renzi è Berlusconi ce ne corre. Non foss'altro perché manca quella eccezionale forza corruttiva degli usi e costumi che di Berlusconi è stata ed è la caratteristica più spiccata e pericolosa.