Istantanea Pier Vittorio Buffa

Gianni il poliziotto

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Questa istantanea è bianca perché negli archivi fotografici digitali la persona di cui voglio parlare non c'è.

Mi è tornata in mente, con forza intensa e serena, mentre seguivo le cronache della domenica della follia. Iniziata con un colpo di pistola che doveva andare al cielo, e invece ha ucciso un ragazzo, e terminata con assalti alle caserme e agli stadi.

La persona, il cui ricordo mi è stato accanto durante tutta la domenica, era un poliziotto che aveva sparato, anche lui, un colpo di pistola che doveva andare al cielo. E invece anche quel proiettile uccise. Il poliziotto arrivò sul corpo dell'uomo che stava inseguendo, si accorse che non respirava più, girò la pistola verso se stesso, sparò.

Lo conoscevo bene, quel poliziotto. Era uno di quelli che aveva messo in gioco tutto se stesso perché la polizia cambiasse, togliesse le stellette, diventasse amica della gente, lasciasse da parte la violenza gratuita. Quando si è accorto che, per un errore, aveva fatto quello che non voleva che la polizia facesse ha pensato che la sua vita non poteva continuare.

Un gesto estremo da non emulare. Ma un lascito doloroso e di grande energia a una polizia che doveva cambiare.

Oggi, se fosse tra noi, sono sicuro che quel poliziotto sarebbe molto triste, forse piangerebbe. E direbbe ai suoi giovani colleghi: "Ragazzi, la pistola tenetela nella fondina, usatela solo se serve davvero, non per sentirvi più forti, non per sparare a chi non sta per uccidervi, non per uccidere". So che direbbe così perché so come la pensavano lui e quelli come lui.

Quel poliziotto si chiamava Gianni Trifirò e morì a Mestre il 15 aprile 1986. Ventuno anni fa.

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Da Angela Boggioni Fedeli ho ricevuto oggi, 16 novembre, una foto di Gianni Trifirò. Eccola

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La faccia dell'assassino

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La faccia del romeno che ha ucciso, o che è accusato di aver ucciso, Giovanna Reggiani, è qui davanti a noi. Osservo a lungo l'istantanea scattata dalla polizia, cerco di leggere qualcosa negli occhi, nel volto, nella barba ispida, nella medaglia attaccata al collo. Ma non riesco a concentrarmi, il pensiero corre via, alla stanza di ospedale dove è morta una donna che stava solo tornando a casa e che sulla sua strada ha trovato Nicolae Romulus Mailat, così si chiama questo uomo della Romania arrestato subito dopo l'aggressione.

Vorrei dire solo due cose.

Non mi piace un governo che emette un decreto dopo un omicidio. Se si sa, come ha detto Walter Veltroni, che il 75 per cento degli arresti avvenuti a Roma lo scorso anno ha riguardato romeni, non bisognava aspettare l'"omicidio efferato", bisognava agire con ponderazione, ma con fermezza e rapidità. Quello che, giustamente, si sta facendo adesso, andava fatto prima, molto prima.

Non mi piace leggere commenti, sulle pagine web dei quotidiani, di gente normale e onesta nata in Romania o altrove e venuta in Italia per lavorare, che racconta della sua paura, del sentirsi sotto accusa, del sentirsi accomunata ai delinquenti. Per quanto in questi momenti possa essere difficile, per quanto la "pelle" possa far dire "basta, fuori gli stranieri dal nostro paese", bisogna tenere davanti ai propri occhi la faccia di questo Nicolae Romulus Mailat. Se lui è l'assassino, come sembra al di fuori di ogni ragionevole dubbio, la sua faccia non è quella di tutti i romeni e "non italiani" che vivono nel nostro paese. Dovremmo non dimenticarcelo mai. Proprio mai.

I due sergenti

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Mario Rigoni Stern (in alto) e Marco Paolini. Il sergente nella neve vero, quello del battaglione Vestone durante la campagna di Russia. Il sergente dello spettacolo andato in onda, in diretta sulla 7, ieri sera 30 ottobre.

Due ore di grande emozione. Paolini entra fisicamente nella pelle del sergente, racconta il Don, il freddo, la paura, la morte e arriva là dove doveva. Nella isba di Nikolajewka dopo la battaglia, a mangiare una zuppa accanto ai nemici, in silenzio, con il moschetto appoggiato a terra. Rigoni ne ha tratto la pagina più bella del suo libro. Paolini dei minuti di recitazione straordinaria.

Due ore a parlare di guerra e di morte. Ma un inno, come "Il sergente nella neve", alla pace e alla fratellanza.

Alla fine, sugli spalti, Paolini abbraccia Rigoni e lo scrittore presenta l'uomo seduto accanto a lui, Nelson Cenci, il tenente del "Sergente", ferito a Nikolajewka, sopravvissuto, come Rigoni, alle battaglie per uscire dalla sacca.

Dice Rigoni al microfono, rivolto alla platea in piedi per una lunga standing ovation: "Finché ci saranno giovani come voi che applaudono una cosa così vuol dire che c'è speranza".

Vietato ubriacarsi

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Durante il mio primo viaggio negli Stati Uniti, tanti anni fa, andai a una fiera, comprai una lattina di birra e, con una costoletta nell'altra mano, mi misi a berla passeggiando. Un poliziotto enorme, di quelli da film, per intenderci, mi fermò e mi fece no con il dito, non potevo girare con la lattina. Gli chiesi se dovevo buttarla, mi fece ancora no e mi indicò un bicchiere di cartone: mettila lì dentro. Obbedii e ripresi a passeggiare mangiando la mia costoletta e bevendo dal bicchiere. La forma era salva, nessuno poteva accorgersi che stavo consumando un alcolico.

Questo minuscolo episodio mi fece immagazzinare una precisa impressione dell'ipocrisia a cui si può giungere nel costruire le regole di una comunità. E mi è tornato in mente leggendo dell'ordinanza di Vicenza, al sindaco Enrico Hullweck è dedicata questa istantanea, che vieta di bere alcolici per strada.

Ci saranno state buone ragioni di ordine pubblico per dettare una norma del genere. Ma se la grappa sarà versata in anonimi bicchieri di carta o la birra in innocue bottigliette di crodino cosa faranno i vigili? Andranno annussando di piazza in piazza?

E' il dilemma di sempre. Proibire spesso pulisce la coscienza di chi governa e dipinge di energia chi ha in mano il bastone della legge. Ma serve davvero? Allontana i giovani dall'alcolismo? Lancia la moda dell'aperitivo analcolico? Non penso.

Penso invece che atteggiamenti opposti, come quello assunto in Veneto per premiare chi si propone come guidatore designato di un gruppo e si astiene dal bere durante una serata in discoteca, possano servire davvero.

Oltre, naturalmente, a non smettere mai di chiedersi perché ragazzi di vent'anni debbano stordirsi per stare bene. Ma questa è un'altra storia. O , forse, è la storia, la vera storia.

Polifemo e il burqa

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Istantanea per una simpatica interpretazione di Polifemo di Daniloff Alexander. E questo per richiamare l'attenzione di Polifemo01 che ha commentato il post "Il burqa della Rosy". La sua tesi è lineare: è vietato non farsi riconoscere, quindi il burqa è vietato e discuterne è inutile. Tesi di tutto rispetto, utilizzata con frequenza e che ha un preciso e serio fondamento. Ma del burqa, o del velo, si parla in un senso più generale perché da simboli di oppressione della donna giustamente combattuti, diventano, in determinati contesti, esattamente l'opposto.

Se io, donna musulmana che vive in un paese occidentale, voglio liberamente indossare il burqa dovrei poterlo fare senza altri ostacoli se non quelli delle leggi del posto dove vivo.

Noi dovremmo poter dire alle fedeli di Allah: nel nostro paese la tua religione è rispettata e i suoi simboli non sono vietati. Ti chiediamo però di rispettare le nostre regole e di farti riconoscere nei casi fissati dalla legge.

Legge che va ancora scritta, con serenità e tolleranza. Altrimenti bisognerebbe proibire anche i caschi integrali dietro i quali si sono nascosti e si nascondono assassini e rapinatori.

Il burqa della Rosy

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Rosy Bindi ha ragione. Prima di dire burqa si o burqa no, prima di dare ragione a questo o quel prefetto bisogna, come sempre, fermarsi a ragionare un momento. Se il burqa è strumento (o simbolo) di oppressione va combattuto. Se il burqa è "simbolo culturale" scelto liberamente va rispettato o, comunque, fatte salve leggi che obbligano ciascuno a farsi riconoscere, inserito in un ragionamento più ampio di rapporti tra culture. Dice il ministro in un'intervista al Corriere della Sera: "La vera sfida è costruire la loro libertà (delle donne immigrate Ndr) nel rispetto della loro differenza". Una affermazione da mandare a memoria.

Piancone, la Gozzini e Mastella

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Istantanea per Cristoforo Piancone, ex brigatista, ergastolano pluriomicida, mai pentito, mai dissociato, detenuto in semilibertà arrestato a Siena dopo una rapina che poteva finire con il morto. Polemiche durissime, giudici sotto accusa. Sotto accusa anche la legge Gozzini, quella che, nel 1986, introdusse istituti come i permessi, la semilibertà e l'ammissione al lavoro esterno, in sostanza la possibilità per detenuti con "buona condotta" di uscire dal carcere durante l'espiazione della pena.

Un giorno di tanti fa un detenuto di Porto Azzurro partecipò, in permesso, a un convegno sulla legge Gozzini appena approvata. Andò al microfono per dire che lui era l'esempio vivente di come il carcere possa cambiare una persona. Ad ascoltarlo c'erano tutti, dall'allora direttore delle carceri Nicolò Amato a magistrati e studiosi. Lo consideravano un detenuto modello e io lo conobbi nella redazione della Grande Promessa, il giornale di Porto Azzurro. Era lì, insieme ad altri detenuti, a fare il giornale, a discutere di titoli e articoli. Poi una telecamera filma due rapinatori in azione in una banca, uno di questi è il detenuto modello di Porto Azzurro, quel giorno in permesso premio. Aveva ingannato tutti, era stato ed era un rapinatore.
Terroristi. Ne ho conosciuti tanti. Stavano in carcere e ora sono liberi. Quasi tutti sono passati per i permessi, il lavoro esterno e la semilibertà. Quasi tutti non sono più tornati, come si dice, a "delinquere".
Casi opposti, vicende umane profondamente differenti che è bene ricordare per non cadere in generalizzazioni e giudizi affrettati.

Sono due i giudizi affrettati ascoltati e letti in questi giorni.

Il primo è quello più semplice e immediato: "Allarme allarme, i delinquenti devono restare in carcere, la sicurezza è in pericolo, chi è in galera ci deve restare". Lo si potrebbe confutare con statistiche e ragionamenti ma è sufficiente rilevare il suo contenuto generico e qualunquista.

Il secondo è quello politico del ministro della Giustizia Clemente Mastella che si dichiara disposto a ragionare sulla revisione della legge Gozzini. Nessuna legge è intoccabile. Ma metterla in discussione dopo un fatto di cronaca che ha colpito particolarmente l'opinione pubblica è operazione che sa di populismo. La legge Gozzini, tanto per precisare, è la legge che ha radicalmente modificato il rapporto del detenuto condannato con il carcere. Ha creato speranze e aspettative. Ha dato una prospettiva di vita al condannato e quindi assecondato il principio costituzionale secondo il quale le pene "devono tendere alla rieducazione del condannato". E' questo in discussione? Il principio che la pena deve "rieducare"? Se è così il ministro della Giustizia ha il dovere di dirlo chiaramente. Altrimenti, proprio davanti a un fatto di cronaca di questa portata, ha un altro dovere, quello di ribadire il valore di quei principi e limitarsi a verificare che le leggi siano state correttamente applicate. Poi, quando l'emozione si sarà sopita, si potrà tornare a esaminare una legge approvata vent'anni fa e che, come tutte le leggi, può aver bisogno di essere adeguata ai tempi senza che i principi che l'hanno ispirata siano intaccati. Ma a sangue freddo, non con il sangue caldo della polemica e della politica del giorno per giorno.

Caccia allo zingaro due

L'attacco al campo nomadi di Ponte Mammolo, a Roma, è diventato, in qualche modo, un episodio simbolico anche al di là della sua rilevanza obiettiva. E' servito e serve a ragionare intorno a un problema che non si risolve certo con le parole e con i blog. Ma che le parole, e i blog, possono aiutare a mettere a fuoco, a capire, a razionalizzare.
Allora facciamo uno sforzo per usare al meglio questi strumenti. Ciascuno di noi ha piccoli episodi di cui è stato protagonista o spettatore. Ciascuno di noi ha una reazione da raccontare, uno stupore da descrivere, una rabbia da condividere. Raccontiamoci qui, altrove, ovunque sia possibile, il nostro contatto diretto con l'immigrazione. Non con opinioni ma con fatti, anche piccoli, minuscoli, insignificanti che aiutino però a ragionare su tolleranza, integrazione, sicurezza...
A me è già capitato di farlo qui e qui. Oggi voglio solo ricordare un pomeriggio di tanti anni fa quando mi passò accanto una bambina nera nera, bellissima. Disse qualcosa in perfetto accento romanesco, io mi voltai di scatto osservandola mentre trotterellava appesa alla mano della sua mamma. La seguii con lo sguardo lasciando che il sorriso provocato dalle sue parole mi conquistasse per intero.
Quel pomeriggio cominciai a riordinare le categorie mentali con le quali avevo fino a quel momento convissuto. Non ho ancora finito e a quella bambina, anche se non ho una sua foto, dedico l'istantanea di oggi.

Caccia allo zingaro

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Il campo nomadi di Ponte Mammolo, a Roma, e una donna rom con i figli. E' il campo attaccato, mercoledì 19 settembre, da una quarantina di persone "coi volti coperti da passamontagna, armate di molotov, spranghe, mazze e catene", come riferiscono le cronache. Il giorno dopo ci hanno provato ancora, ma i carabinieri che li hanno fermati e hanno ammanettato uno di loro.

Di cosa vogliamo discutere? Di rom buoni o cattivi? Di rom ladri o non ladri? Di grandi campi fuori città o di integrazione? No, quello che è successo a Roma ci fa fermare molto prima, alle regole primarie su cui si basa una società civile e, quindi, ci costringe a essere ovvii, ma tant'è.
Anche se quel campetto di rom fosse un covo di ladri, anche se la sicurezza del quartiere fosse seriamente messa in pericolo, anche se si temessero pericoli ancora maggiori quello che è successo non deve succedere. Assolutamente. Non c'è bisogno di ricordare il Ku Klux Klan o simili precedenti storici. C'è da dirsi, semplicemente, che non ci si fa giustizia da soli. Che bisogna caso mai pretendere, con tutti i mezzi che la democrazia consente, che lo Stato garantisca la sicurezza delle città nel rispetto dei diritti di tutti. Difficile, in molti casi difficilissimo. Ma non ci sono altre strade.

Nella foresta con Ishmael

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Questo ragazzo dagli occhi dolci e lo sguardo un po' perduto ha ucciso decine di persone con il fucile, il coltello, le mani. Lo racconta lui stesso nel libro più scioccante che mi è capitato di leggere negli ultimi tempi (Ishmael Beah, Memorie di un soldato bambino, Neri Pozza, pagg. 256, euro 15,50).
Ishmael è nato in Sierra Leone nel 1980. A dodici anni gli hanno messo addosso una divisa e dato un fucile, lo hanno drogato, gli hanno insegnato a odiare e uccidere. Poi, un certo giorno, la sua vita è cambiata, dopo anni è approdato negli Stati Uniti, si è laureato in scienze politiche e ha trovato la forza di raccontarsi.
Per questo dedico l'istantanea di oggi a Ishmael. Chi è capace di scrivere quello che lui ha scritto, di dare forma di parole e frasi all'orrore puro di cui è stato protagonista non dimostra solo determinazione e coraggio. Fa a noi, a tutti noi, un grande dono. Ci porta nella foresta a sgozzare uomini donne e bambini, bruciare villaggi, vedere il sangue scorrere nei fiumi. A vedere com'è il mondo che non vogliamo vedere.

Grazie Ishmael.

Vendersi

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Una istantanea come tante, scattata lungo la strada di una grande città. Una ragazza che si vende mettendosi in mostra.
Probabilmente è minorenne o quasi. Probabilmente viene da un paese dell'Est europeo. Probabilmente è arrivata in Italia con la promessa di un buon lavoro. Probabilmente c'è chi la costringe a prostituirsi con violenze e minacce.
Ma potrebbe anche essere una ragazza maggiorenne. Una donna arrivata sulla strada senza violenze e minacce. Una donna che ha scelto di vendere il proprio corpo per guadagnarsi da vivere.
Ecco, soffermandosi a guardare la foto di una prostituta senza volto, a immaginare la sua vita, le sue aspirazioni e la sua storia si può riuscire a fissare qualche punto fermo nel serrato dibattito su sicurezza e decoro. Partendo, appunto, dalla prostituzione.
Non v'è dubbio che se la nostra ragazza è una minorenne le chiacchiere, come si dice a Roma, stanno a zero. Va tolta dalla strada. Punto e basta.
Se la nostra ragazza è maggiorenne ma è lì a mostrare e vendere se stessa perché costretta il discorso è simile, se non identico. Inutile parlare di zone o aree riservate, di parchi dell'amore. Bisognerebbe solo aiutarla a uscire dalla morsa della costrizione. Difficile, anzi, difficilissimo. Ma è una partita che va giocata con grande energia. Non per il decoro delle città, non per la sicurezza dei cittadini, ma per il bene della nostra ragazza.
Se invece la nostra ragazza è una donna maggiorenne, capace di agire liberamente e che liberamente ha scelto di diventare una "sex worker" si può cominciare a parlare di zone organizzate dove il mestiere possa essere esercitato in tutta sicurezza. Chi vuole potrà andare lì a comprare il proprio quarto d'ora di sesso senza essere criminalizzato. Chi non vuole girerà per le altre strade della città senza vedere corpi nudi e senza rischiare di tamponare le auto dei clienti.

La sentenza di Cefalonia

Istantanea senza immagine perché è, sostanzialmente, la continuazione di quanto avevo scritto in Grazie. Si parla di Cefalonia e del massacro della divisione Acqui. Poco prima di ferragosto il Manifesto ha dato notizia della decisione del magistrato tedesco di non continuare le indagini su quella strage perché non ci sono elementi per considerare quegli omicidi degli "omicidi aggravati". Su questa notizia Marcella De Negri, figlia del capitano Francesco De Negri, trucidato a Cefalonia, e il giornalista Franco Giustolisi, autore dell'Armadio della Vergogna, hanno scritto una lettera aperta. Io vorrei dire due sole cose.
1. La notizia che viene da Dortmund è di quelle che trasmettono amarezza e senso di giustizia incompiuta. Difficile far finta di nulla e difficile liquidare la questione con un "è passato tanto tempo...". Quello che è successo in quegli anni non deve essere dimenticato e ci si dovrebbe proporre, ogni anno, di leggere qualche pagina che racconta. Io, in questi giorni, ho letto "Il morto nel bunker", di Martin Pollack, (Bollati Boringhieri, 2007).
2. Su Cefalonia possiamo dirci, con serenità, che non c'è più bisogno della sentenza di un qualunque giudice per sapere cosa è successo in quell'isola dopo l'8 settembre 1943. La storia, fatta di documenti e testimonianze, la sua sentenza l'ha già emessa da tempo. Fu un massacro a sangue freddo di militari che non avevano voluto cedere le armi senza combattere. Uno dei primi atti della resistenza e della nuova Italia, aveva detto Carlo Azeglio Ciampi quando stava al Quirinale. Come a Porta San Paolo, come in decine di altri posti dove i soldati italiani vennero sorpresi dall'armistizio. Ma Cefalonia fu quello più drammatico e sanguinoso. Li rappresenta tutti.

One World, One Dream, the Same Human Rights

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Il China Daily ha intitolato il suo servizio "La Cina invita il mondo ai Giochi olimpici". I giornali di tutto il mondo hanno parlato della manifestazione che ha scandito l'ultimo giro di stagioni prima dell'accensione della fiaccola a Pechino. Gli inviati e i corrispondenti hanno raccontato lo smog che avvolge la città e le drastiche misure che si stanno adottando per ridurlo. Quaranta intellettuali hanno fatto circolare su internet una lettera al presidente Hu Jintao in cui, con un coraggio che per noi è forse difficile comprendere sino in fondo, sostengono che non vi può essere "gloria olimpica senza i diritti umani". E propongono al presidente un gesto forte: cambiare lo slogan delle Olimpiadi ("One World, One Dream") con uno molto più impegnativo "One World, One Dream, the Same Human Rights".
Nel giorno del grande sventolio di bandiere olimpiche, l'istantanea è quindi dedicata a questa bambina tibetana di dodici anni uccisa dai militari cinesi (immagini tratte da qui). Per dare il nostro infinitesimale aiuto all'appello dei quaranta e per ricordarci che i cinque cerchi vogliono anche dire pace, concordia e giustizia.

La lezione di Torquato

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Torquato Secci a Bologna, quel 2 agosto 1980, perse il figlio Sergio. Da quel giorno ha dedicato la propria vita, per intero, a cercare la verità sulla strage, a chiedere "verità e giustizia". Oggi Torquato Secci non c'è più, se ne è andato senza aver potuto sapere sino in fondo perché venne messa quella bomba ma lasciando dietro di sé una scia di luce. A me, che ho avuto il privilegio di conoscerlo, ha insegnato cosa vuol dire l'amore per un figlio e il desiderio, struggente, di voler vivere in un mondo giusto. A tutti ha fatto capire, con la sua azione tenace e incisiva, come nulla debba restare intentato per cercare giustizia. A costo di apparire testardo. A costo di sembrare un Don Chisciotte che non capisce come va il mondo.
Oggi è merito anche di Secci se il 2 agosto non scorre indimenticato nelle nostre vite, se anche i ragazzi si chiedono che giorno fu mai quello per essere ricordato dopo tanti anni con una simile intensità.
Fu un giorno, ragazzi, in cui sembrò che in Italia, a quel punto, potesse succedere di tutto. Che non ci fosse più limite alla follia terrorista. E quello che seguì, le indagini, i depistaggi, gli arresti, le condanne, furono battaglie tra uomini come Secci e chi invece voleva che la verità restasse seppellita sotto quelle macerie. Una parte di verità, purtroppo, è rimasta davvero sotto le macerie della stazione di Bologna. Per questo è giusto, ogni 2 agosto, fermarsi un attimo, pensare a tutti i Torquato Secci che hanno fatto la storia del nostro paese e ricordarsi che chi disse "Mettete la bomba a Bologna" non ha mai varcato la soglia di un carcere.

Dragan Cigan

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Questa è la foto tessera di Dragan Cigan, l'uomo di 31 anni, della Bosnia, che il 22 luglio ha salvato due bimbi alla foce del Piave per poi essere trascinato via dalla corrente e morire annegato. Tutti in piedi di fronte al coraggio di questo giovane muratore. E vergogna per i genitori dei due bambini che, mentre ancora si cercava di salvare l'uomo che aveva riportato i loro figli a riva, se ne sono andati infischiandosene della sorte di chi aveva dato la propria vita per lasciarla ai loro due bambini. L'uomo e la donna si sono allontanati tra le urla e gli insulti, perché tutti, su quella spiaggia, avevano capito che stava accadendo qualcosa che non dovrebbe mai accadere. Il disprezzo per la vita altrui, l'egoismo elevato a valore di riferimento, l'incapacità a provare gratitudine, l'immaginare che nella vita si debba solo avere. Questo è successo mentre la famigliola se ne andava e la gente urlava.
Pochi istanti prima era stato l'opposto. Le stesse persone avevano assistito alla massima espressione dell'altruismo, del coraggio, della capacità di mettersi in gioco per il bene altrui, dell'amore per la vita. Protagonisti un bosniaco, che è morto, e un marocchino, che è sopravvisuto. Insomma, due extracomunitari, come si dice usando una parola che andrebbe abolita dal nostro vocabolario.
Un augurio ai due bambini salvati dall'uomo della Bosnia. Di questa drammatica giornata ricordino gli occhi di chi li ha salvati e portino, un giorno, un fiore sulla sua tomba. E nel proprio cuore non lascino crescere la malapianta che ha spinto papà e mamma a voltare le spalle a chi gli ha ridato la vita.