Istantanea Pier Vittorio Buffa

Quando la storia diventa fumetto

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Con la storia non si scherza. E' la prima reazione che ho avuto nel leggere della pubblicazione di Una storia della Lombardia a fumetti sovvenzionata dal consiglio regionale lombardo, volume che sarebbe già stato distribuito in molte scuole lombarde e al quale è obbligatoriamente dedicata l'istantanea di oggi.
Il racconto a disegni parte dal 3000 avanti Cristo e arriva ai giorni nostri passando per il risorgimento, quando "alcune manovre e piccoli intrighi, certi eroismi e strani trattati avevano portato la penisola italiana a essere un unico regno", per il Sessantotto e per gli anni Settanta, quando "ai movimenti studenteschi e operai si sostituirono veri e propri atti di terrorismo... come gli attentati di Milano e di Brescia".
Non mette conto confutare queste affermazioni. Non perché non sia diritto di ciascuno leggere la storia come meglio crede. Ma perché, appunto, con la storia non si scherza. Se si vuole esercitare il diritto di ribaltare sentenze giudiziarie o l'interpretazione di grandi eventi storici studiati e ristudiati, si ha il dovere di argomentare, spiegare, provare. Soprattutto prima di far entrare un libro così in una scuola.
Nulla in contrario quindi che venga scritta una storia della Lombardia che piaccia alla Lega. Ma non con frasi e disegni buttati là perché un ragazzino assorba senza pensare. Questo proprio no.

Dalla morte all’ergastolo

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Niente più patibolo per le infermiere bulgare e il medico palestinese, una buona notizia che va subito registrata. La decisione è della Corte superiore delle istanze giudiziarie di Tripoli. Adesso, probabilmente, scatterà l'estradizione a Sofia. Resta da capire se e cosa hanno avuto in cambio le autorità libiche oppure se tutto è avvenuto per "amor di giustizia".
Ufficialmente la svolta è passata attraverso i risarcimenti di cui si è occupato, con la sua fondazione, Saif al Islam al Gheddafi, figlio del colonnello (è per lui l'istantanea di oggi). Un milione di dollari, secondo quanto riferiscono i giornali, a ciascuna delle famiglie dei bimbi malati.

La scivolata

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Aula della Corte suprema libica. Dietro le sbarre le cinque infermiere bulgare accusate, insieme a un medico palestinese, di aver infettato con il virus dell'Aids oltre 400 bambini dell'ospedale di Bengasi. La corte conferma la condanna a morte malgrado sia da tempo provata la loro innocenza (arrivarono in Libia dopo la diffusione del virus) e ci siano stati appelli un po' da tutto il mondo e in particolare dalla Ue.
Oggi è bene soffermarsi sui volti di queste donne perché la loro vicenda, iniziata con l' arresto nel febbraio del 1999, è una di quelle che "scivolano via". I giornali ne parlano da tanti anni, le puntate sono distanti l'una dall'altra anche parecchi mesi, il tutto acquista il sapore di una storia senza fine e i lettori, e quindi l'opinione pubblica, tendono a lasciarla "scivolare" o a "scivolarci sopra", cioè a leggere il titolo di sfuggita o addirittura a saltare la pagina in seguito a una sommaria e inconscia catalogazione. "Le infermiere bulgare, storia vecchia, chissà quando finirà...".
E invece stanno scorrendo davanti ai nostri occhi i fotogrammi di un film orrendo, di quelli che non dovrebbero mai essere girati e ai quali non vorremmo mai assistere. La trama è semplice nella sua inumanità: sei persone sono in galera da otto anni, in un braccio della morte, quando è stata acquisita da tempo la certezza scientifica della loro innocenza. Chi conosce bene la Libia sostiene che il medico e le infermiere altro non sono che una preziosa merce di scambio in mano al regime libico. Probabilmente non verranno mai giustiziati ma il cappio che pende davanti a loro serve ad ottenere qualcosa di molto prezioso in cambio della vita dei prigionieri.
La vita umana come merce. Ecco perché se ci dovessimo ancora sorprendere nel lasciar scivolare via le "infermiere bulgare" dovremmo vergognarci di noi stessi.
documentazione

Ritorno a casa

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Istantanea di una pagina di giornale. Non di un giornale qualsiasi, è il New York Times. E non di una pagina qualsiasi, è quella in cui è scritto che gli Usa devono lasciare l'Iraq, trovare subito la strada di casa, la "road home".
Sono due i motivi per cui mette conto soffermarsi su questa pagina per qualche minuto e andare oltre la semplice lettura.
Il primo è per la chiara ma forte semplicità delle argomentazioni. Gli Stati Uniti devono lasciare l'Iraq perché è stata un'invasione sbagliata, perché non controllano il territorio, perché la democrazia è ancora lontana, perché non devono più morire americani, perché si è dato spazio e fiato ad Al Qaeda, perché si sono distolte forze dall'Afghanistan dove i terroristi potevano essere combattuti con successo. Considerazioni fatte migliaia di volte in questi anni, in tutto il mondo, e alle quali poco a poco, sono arrivati anche molti che hanno applaudito i marines il giorno della caduta di Bagdad. Oggi, leggerle una dietro l'altra su uno dei giornali più autorevoli del mondo sotto il titolo "Ritorno a casa", non può che dare sollievo. Ma anche procurare rabbia: le ultime statistiche dicono che dal 19 marzo 2003 in Iraq sono morti 70 mila iracheni, 3586 soldati americani, 284 soldati di altri paesi.
Il secondo è per la la forma con la quale il giornale ha preso posizione. Un articolo lungo ma del quale, secondo la migliore tradizione del giornalismo americano, si capisce tutto dalle prime righe, quelle diventate l'oggetto dell'istantanea di oggi. Una lezione di chiarezza sulla quale è bene riflettere qualunque mestiere si faccia. E anche come semplici cittadini che devono pretendere da chi li governa e da chi li informa messaggi netti e, appunto, chiari.

Il campione senza gambe

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Nella foto qua sopra c'è Oscar Pistorius. E' sudafricano, ha diciannove anni, gli hanno amputato le gambe a undici mesi e lui ha fatto dello sport la ragione della sua vita. Ma non solo dello sport per disabili ("Io non sono un disabile ma semplicemente una persona senza gambe") ma di quello, diciamo così, del mondo normale. Sui cento metri ha un personale di 10.91, sui duecento di 21.34 e su quattrocento di 46.34. Il 13 luglio corre, fuori gara, al Golden Gala di Roma. Ma punta di mondiali di Osaka e alle Olimpiadi di Pechino. Qui non importa discutere, come si sta facendo, se sia giusto o meno che, con quelle protesi in carbonio, possa gareggiare accanto a chi ha gambe di muscoli e ossa. Importa solo soffermarsi sull'istantanea di Oscar che corre e immaginare la forza, la determinazione e il coraggio che animano quella falcata agile e veloce.

La carezza di Anna Maria

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Ecco un'istantanea sulla quale fermarsi davvero a riflettere. A sinistra l'ex capitano delle SS Erich Priebke condannato per l'eccidio delle Fosse Ardeatine. A destra Anna Maria Canacci, sorella di Ilario Canacci, una delle 335 vittime delle Ardeatine. La donna è diventata la migliore amica di Priebke e il loro rapporto viene ben raccontato in un lungo articolo di Giacomo Galeazzi sulla Stampa (da cui è anche tratta la fotografia che mi sono permesso di riprodurre qua sopra). "Era obbligato a obbedire", dice Anna Maria, "ma dentro è molto dolce". E di sé: "Sono scesa nell'abisso per dimostrare che dall'odio nasce il male mentre il perdono crea la riconciliazione".
Una foto e un articolo che sono un pugno o una carezza, a seconda di come si vogliano leggere le parole di Anna Maria.
Per me sono una carezza.
Anche se ho sostenuto e sostengo che Priebke deve scontare la pena sino in fondo. Anche se sono tra coloro che ritengono non sia inutile celebrare anche a decine di anni di distanza i processi contro i nazisti colpevoli di stragi.
Anche se quando mi trovo, come sabato scorso, su una piazza come quella di Leonessa mi guardo in giro cercando un segno della barbarie passata di lì.
Certo, ho osservato a lungo la bambola regalata dalla sorella di una vittima delle Ardeatine a un boia delle Ardeatine. Ho avvertito anche un piccolo brivido lungo la schiena, come un senso di orrore e smarrimento. Ma poi, soffermandomi sugli occhi di Anna Maria, ha prevalso un sentimento di grande rispetto nei suoi confronti. Chi è capace di una cosa del genere, mi sono detto, deve aver raggiunto dentro di sé una grande pace e un grande equilibrio. E così ho lasciato che la sua carezza mi raggiungesse.
Una carezza dolce, che sa di buona mamma o di nonna paziente. Una carezza, dunque, non necessariamente giusta e imparziale, ma capace di trasmettere, anche per un solo momento, un senso di sollievo.

Non è giusto

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Erich Priebke libero di andare a lavorare nello studio del suo avvocato. Una decisione astrattamente e giuridicamente corretta, l'ex ufficiale delle SS ha 93 anni, è difficile che possa far male a qualcuno e resta, tecnicamente, un detenuto perché deve tornare a dormire nella casa dove sconta gli arresti domiciliari.

Eppure è una decisione sbagliata, anzi, sbagliatissima. Ci sono casi in cui un uomo si trova a ricoprire un ruolo che va oltre se stesso e oltre le proprie azioni. Priebke è uno di questi. Oggi non è solo l'ex ufficiale delle SS che ha partecipato, sparando di persona, al massacro delle Fosse Ardeatine. Si potrebbe sostenere che, per quello che ha fatto come uomo, Priebke abbia già pagato con l'esilio, la condanna, la prigione, il pubblico ludibrio. Ma sicuramente non ha pagato, e mai pagherà abbastanza, per quello che rappresenta.
Priebke è uno delle centinaia di migliaia di uomini che con il teschio sul bavero e sulla testa massacrarono i loro simili. Tutti responsabili in solido, di fronte all'umanità, dell'incommensurabilità dei delitti commessi da ciascuno. Sono delitti per i quali il "fine pena" non esiste e non deve esistere non per sete di vendetta ma per giustizia.
Perché non è giusto che una sola vittima di quegli anni (un bimbo di allora che ha visto scannare la propria madre o una bimba che ha visto il proprio padre ucciso contro un muro) patisca la sofferenza di vedere libero un uomo condannato da un tribunale e responsabile in solido di quegli atti.
Perché non è giusto che i nostri figli vedano libero un uomo condannato da un tribunale e responsabile in solido di quegli atti. Noi, che lo abbiamo messo in libertà, non potremmo più suggerirgli la lettura di "Se questo è un uomo".
Perché non è giusto, infine, calpestare la memoria di chi per combattere gli uomini con i teschi, o anche soltanto per non essere con loro, se ne è andato troppo presto da questa terra.

Mamma di Lapo

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"Nella mia vita non c'è posto e spazio per lei". Lo ha detto Lapo Elkann parlando di sua madre Margherita Agnelli, figlia di Gianni, in una lunga intervista al Corriere della Sera. Ora io non so né, direi, voglio sapere, che cosa ha spinto il trentenne Lapo a un'affermazione così cruda e dura. Probabilmente, se interpellato, lui stesso potrebbe argomentare nel modo più convincente le proprie affermazioni. Ma, sinceramente, non mi interesserebbe perché sono parole, quelle che ha pronunciato, che sono incompatibili con il rapporto madre-figlio, di qualunque natura esso sia. Non perché alla mamma si debba per forza rispetto, affetto e quant'altro. Ma perché affermare che nella propria vita non c'è spazio per lei è semplicemente falso. Anche chi odia nel modo più profondo la persona che lo ha messo al mondo gli riserva un posto e uno spazio che forse, in certi momenti, non è in grado di percepire ma che periodicamente gli occuperà, suo malgrado, l'esistenza. Perché il pensare alla mamma, in qualunque modo, fa parte delle cose che la vita ci dà senza che noi se ne possa, più di tanto, disporre.

E quindi affermare, a trent'anni, di aver cancellato la mamma ha più il sapore di una menzogna a se stessi che quello di un forte atto di emancipazione e giustizia. E questo senza entrare nel merito del caso a cui è dedicata questa istantanea. E' stato solo uno spunto.

La falsa donatrice

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La storia è nota, ne hanno parlato tutti i giornali, in Italia e nel mondo. Durante una trasmissione televisiva olandese tre dializzati dovrebbero contendersi i reni di una donatrice che sta per morire. Ma Lisa, la ragazza che sta per morire, è solo un'attrice, e la trasmissione è una burla (anche se i dializzati sono veri) per attirare l'attenzione sulla questione dei trapianti e della carenza di donatori. Clic sulla televisione nel momento in cui lo show va in onda e su chi lo ha condotto, Patrick Lodiers, per chiedersi due cose.

1. E' legittimo usare qualunque mezzo per attirare l'attenzione pubblica su una questione delicata e cruciale come quella della disponibilità di organi per salvare vite umane? La mia risposta è sì.

2. E' giusto che per attirare l'attenzione pubblica si debba alzare così tanto la voce, sino a mettere in piedi una messinscena come è stato fatto in Olanda? La mia risposta è no. Quando si grida troppo vuol dire che moderazione e buon senso sono rimasti fuori della porta. Oppure che tutti urlano e nessuno sa ascoltare. E questo, per quello che ne so, non è mai un buon segnale

Mohammed

Un paesino del Norditalia, nel Varesotto. E' mezzanotte, io non ho macchina fotografica ma non c'è nulla da fotografare perché l'istantanea di oggi è un breve racconto.
Nella via principale, deserta, c'è un ragazzo che urla al cellulare. Non sta litigando con qualcuno perché chiede aiuto e sanguina dalla fronte. Ha la pelle bruna e dopo poco un altro ragazzo, con la pelle bruna anche lui, gli si avvicina. Gli tampona la ferita, mi chiede di chiamare i carabinieri, blocca con abili mosse il suo amico che urla e cerca di farsi male, di sbattere la testa contro il muro, di gettarsi con violenza a terra. Chiamo il 112. Da Luino, distante una trentina di chilometri, mi dicono di chiamare il 118. Eseguo e un'ambulanza parte immediatamente da Gavirate (altri trenta chilometri). Il ferito continua a dimenarsi, dice di essere stato aggredito, è confuso, probabilmente ha bevuto molto. Aiuto il suo amico a tenerlo fermo. Nessuno sembra udire le urla di Mohammed, il marocchino ferito. Mi sembra di capire che dice di se stesso, del suo essere solo, del non aver fatto mai fatto del male. Intorno c'è silenzio. Un brutto paese, penso, quello in cui nessuno interviene per aiutare un ragazzo ferito e mi dispiace pensarlo perché è un paese al quale voglio bene. Ma per fortuna mi sbaglio perché in pochi minuti la strada si anima, esce una donna, un'altra, mi chiedono, guardano il ragazzo sdraiato sull'asfalto come si guarda un proprio simile che sta soffrendo. L'amico di Mohammed si alza, forse vede troppa gente intorno a sé, si intimorisce dice che deve andare, che lui lo ha solo aiutato, che non può fare altro.
Mohammed resta sull'asfalto senza più il suo amico del Marocco a tenerlo fermo. E' un attimo: questo ragazzo sano e robusto ha gli occhi spalancati verso il cielo nero, il sangue sulla fronte, i pugni chiusi, il corpo che racconta con forza drammatica la solitudine e la disperazione. Poi arriva l'ambulanza, subito dopo i carabinieri e la serata di Mohammed prende la strada che deve prendere la serata di un ragazzo che, probabilmente nel modo sbagliato, cerca un pizzico di serenità mille miglia lontano da casa sua.
L'istantanea di oggi è dedicata a Mohammed perché l'ho visto soffrire, perché ho visto carabinieri e infermieri assisterlo con grande cura, perché ho visto un paese considerare quel ragazzo ferito e straniero una parte di sé.

L’ultimo alfiere

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Oggi mi ha telefonato Edmondo Brunellini. E' un uomo anziano, molto anziano e mi ha chiamato appena tornato da un lungo ricovero in ospedale. Ero andato a trovarlo due anni fa per ricostruire con lui una storia che mi aveva molto colpito. Perché Brunellini era, ed è, l'unico superstite di un gruppetto di tredici ufficiali dei bersaglieri che compirono un'impresa singolare e pressoché sconosciuta.
Nel 1943 vennero fatti prigionieri dai tedeschi e quando arrivarono nel lager decisero di fare a pezzi la bandiera del reggimento perché, almeno un frammento, avesse più probabilità di essere salvato. A Brunellini venne affidata, e la riportò in Italia, una parte del verde. E fu lui, anni dopo, a riconsegnare solennemente al suo reggimento la bandiera di guerra sfuggita alla cattura.
Passammo una giornata insieme nella sua casa di Civitanova Marche e, con lui, ho potuto ricostruire nel dettaglio la storia della bandiera fatta a pezzi e salvata.
A Brunellini l'istantanea di oggi. Come piccolo omaggio a un uomo che ha difeso se stesso e il pezzetto di dignità del proprio paese che gli era stato affidato.

Chi vuole conoscere meglio la storia dell'ultimo alfiere del secondo reggimento bersaglieri può LEGGERLA QUI

La missione di una foto

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Nelle prime ore di questa mattinata almeno due persone, un conoscente incrociato al bar davanti a un caffé e un giornalista di vasta esperienza, mi hanno posto la stessa domanda: "Ma era proprio necessario pubblicare la foto del mullah Dadullah, la foto di un cadavere?". La prima volta, al bar, ho detto "sì", senza pensarci tanto e senza nemmeno argomentare. In redazione, al giornalista, ho detto ugualmente "sì" con la stessa rapidità, ma quando lui se ne è andato ho pensato fosse giusto motivare il mio si facendo diventare la foto del cadavere di Dadullah l'istantanea di oggi.
E' un sì che, in qualche modo, viene da lontano, dalle tante orribili immagini di cui è costellato il nostro passato. Nel dire sì, questa mattina, me ne sono ripassate davanti tante: il corpo di Aldo Moro sul tavolo dell'obitorio e quello del giudice Vittorio Occorsio, il capo della polizia sudvietnamita che fredda una supposta spia con un colpo alla tempia e l'esecuzione di Quattrocchi in Iraq, per citare solo quelle che mi sono tornate alla memoria nei secondi in cui ho bevuto il caffé. E se ci si mettese a fare un elenco probabilmente non si finirebbe mai.
Ciascuna di queste immagini, dure, violente, che si infilano negli anfratti della nostra memoria restandovi dentro per anni, ha avuto una sua funzione, ha svolto, come dire, la propria missione. Sono come degli anticorpi che, radicandosi in noi, dovrebbero allontanarci dalla violenza e dalla sopraffazione. Ecco, se ciascuna delle foto di cui stiamo parlando si fosse radicata anche in una sola persona la sua missione già sarebbe compiuta.
Questa foto del leader violento e crudele dei talebani ucciso in Afghanistan ha una missione più precisa. Far capire l'orrore di una guerra di civiltà, allontanare dal terrorismo e dalla violenza, spingere verso il dialogo. Un'utopia, lo so. Ma se, anche in questo caso, una sola persona lascerà che si compia la missione di questa foto vorrà dire che diffonderla e pubblicarla è stato giusto.
Per questo, probabilmente, ho risposto sì senza pensarci troppo, perché spero davvero che almeno una persona, in tutto il mondo, lasci fare a questa foto il proprio lavoro.

Il diritto di essere rispettati

Oggi, 3 maggio, in una piccola traversa di via Cola di Rienzo, a Roma, ho assistito a questa rapida scena. Un camioncino è parcheggiato in mezzo alla strada e la blocca. Dietro di lui l'autista di un camion di una nota ditta di trasporti suona per far sapere al proprietario che non si fa così, che non si lascia un camioncino incustotido al centro di una carreggiata. Il proprietario arriva senza fretta, quando si è già creata una discreta fila. L'autista bloccato lo appella con normali "Ma che si lascia la macchina così? Ti vuoi muovere?". Solo che a pronunciare queste normali frasi da mini diverbio stradale è un ragazzo di origine sudamericana, comunque con la pelle olivastra, non "italiano". L'uomo che aveva lasciato il camioncino in mezzo alla strada parte all'attacco, estrae un cacciavite dalla tasca e urla "Cosa cazzo vuoi? Tornatene al paese tuo. Non stare qui a rompere i coglioni. Torna da chi ti ha partorito". Alza il braccio destro e aggredisce il ragazzo, lo stringe contro una macchina, vorrebbe colpirlo con il cacciavite ma le urla della piccola folla che si è radunata lo fanno desistere e l'uomo se ne va urlando "Tornatene a casa tua".
Non avevo con me la macchina fotografica, quindi questa è una istantanea mai scattata. Però è restata bene impressa nei miei occhi e la racconto qui per cercare di farla restare impressa negli occhi di chi legge queste righe.

Ecco, nel giorno in cui il sindaco di Roma chiede al governo un "patto di legalità" che prevede lo spostamento dei campi rom al di fuori del raccordo anulare e il divieto per le prostitute di lavorare lungo le strade cittadine, io, nel mio piccolo, chiedo ai miei concittadini di non essere più protagonisti di scene come quella che ho raccontato. E' dal rispetto degli altri che inizia il diritto ad essere rispettati.

Grazie

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Un'istantanea che viene da lontano quella di oggi, dal triste settembre 1943. Il monumento agli italiani della divisione Acqui trucidati a Cefalonia dai tedeschi. E' un invito a soffermarsi per qualche istante su queste lapidi, ed è bene farlo per almeno tre motivi.

1. Per decenni quella strage non ha avuto né onori né polemiche. Poi è diventata, grazie a tanti, e soprattutto a Carlo Azeglio Ciampi, il simbolo dell'Italia che si risolleva dal buio del fascismo e della guerra combattuta accanto ai nazisti. E' bene che Cefalonia resti tale e che, almeno ogni anno, di questi tempi, ci si metta per qualche secondo nei panni di chi si è visto uccidere per non aver voluto più combattere insieme ai nazisti.

2. In questi giorni si è nuovamente parlato della sentenza di Monaco in cui un giudice tedesco ha scritto che non ci sono state aggravanti a uccidere gli italiani perché, in fondo, erano dei traditori. Tenere nel proprio archivio mentale il monumento di Cefalonia è come affermare a se stessi e agli altri, per ora e per sempre, che chi ebbe il coraggio di quei gesti non tradiva, ma affermava, semplicemente, la propria dignità.

3. A Cefalonia c'era una divisione dell'esercito italiano che, come tutte allora, era un campionario vario e, allo stesso tempo rappresentativo, dell'Italia. Non era una divisione di eroi, né di comunisti, né di fascisti, né di democristiani. Per questo le lapidi della nostra istantanea hanno un forte valore simbolico più di quanto si sia potuto immaginare in questi decenni. Guardiamole con rispetto e diciamo, sommessamente, "grazie".

C’è figlio e figlio

Negli Stati Uniti sta facendo scandalo e in Italia ne ha dato notizia, tra gli altri,rebecca1.jpg
il Corriere della Sera. E' la tesi sostenuta da Rebecca Walter, nel suo ultimo libro Baby love. La scrittrice americana, mamma adottiva di Solomon (partorito dalla sua ex compagna Me'shell Ndegéocello) e mamma naturale di Tenzin, ha fatto un ragionamento semplice e dirompente: l'amore per un figlio adottivo non è intenso come quello che si sente per il sangue del proprio sangue. E ha esemplificato: per Tenzin sarei pronta a morire, per Salomon non penso che farei lo stesso.
Quando si toccano l'amore filiale insieme alla vita e alla morte si va dritti al cuore di tutti. Allora guardiamo negli occhi questa donna dai modi spicci e ragioniamo sulle sue parole.
Io ho due figli, come dire, "di sangue", e per loro sarei pronto a morire. Se accanto a loro ci fosse un figlio adottivo forse, come per la Walker, non sarebbe la stessa cosa, proverei un qualcosa di diverso e, probabilmente, non sarei pronto a morire. Ma me ne vergognerei e mi obbligherei a offrire ugualmente il petto per un motivo molto semplice.
Nel momento in cui si decide di adottare un figlio immagino (perché personalmente non mi è capitato) che ci si debba impegnare con lui, e con se stessi, a considerarlo un figlio a tutti gli effetti. Uguale a figli naturali che si hanno o si avranno, uguale ad altri figli adottivi.
Un impegno verso di lui e verso noi stessi che ci impone di controllare il nostro comportamento più spontaneo e di onorare la parola data.
Anche se non vieni dal mio sangue, anche se preferirei non farlo, sono pronto ugualmente a morire per te.
Se non ce la sentiamo di poter arrivare a questo vuol dire che adottare non è la nostra missione.