Istantanea Pier Vittorio Buffa

Non posso scioperare, ma...

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Il 30 ottobre la scuola sciopera. Io non ho più figli in età scolare e non ho parenti che insegnano a cui dare diretta solidarietà. Ma se potessi sciopererei anche io.

E non entro nemmeno nel merito della riforma, ne abbiamo già discusso nelle scorse settimane (vedi i post Signora ministro merita un bel tre, Divise alle maestre, non ho capito, Le maestre hanno ragione)

Sciopererei perché mi sembra abnorme riformare per decreto un organismo delicato e importante come la scuola e perché la scuola non è una questione che riguarda solo gli insegnanti, gli alunni e le loro famiglie.

Ma non potendo scioperare realmente, sciopererò idealmente.

Se il 30 ottobre sarò a Roma parteciperò al corteo. Se sarò da un'altra parte farò un piccolo gesto di disobbedienza civile o di discontinuità.

Quanto all'istantanea con cui aprire queste righe non mi è venuto in mente niente di meglio che un bel quadrato nero

Effetto macedonia

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Gli amici che in questi mesi si sono ogni tanto affacciati in questo spazio sanno come la penso in tema di razzismo, immigrazione e diritti.
Adesso però avverto qualcosa di strano, come un fastidio. L'ho analizzato e ho capito che viene dall'effetto macedonia. E mi spiego.
Che ci siano fenomeni razzisti nel nostro paese e che questi stiano aumentando è fuor di dubbio.
Ma è anche fuor di dubbio, e questo è l'effetto macedonia, che si è sviluppato in modo pericoloso un riflesso condizionato. Se un uomo di altra razza subisce una violenza è razzismo e quindi merita spazio e titoli.
Non è così. Bisogna, come si dice, alzare il livello del rigore informativo. Prima di dire e scrivere che siamo di fronte a un atto di natura razzista dobbiamo essere sicuri che sia così, davvero sicuri. Altrimenti si fa una macedonia in cui non si capisce più nulla.
E i razzisti, quelli veri, avranno facile gioco.

Quando è giusto picchiare

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Sospettati di furto picchiati duramente in un market di Padova.

La storia l'ha rivelata "il mattino" di Padova e la si può leggere qui. Sarebbe a questo punto interessante sapere cosa è successo all'uomo in camice bianco che, il 7 agosto, ha aggredito i due clienti. Perché alcuni punti fermi in questa storia si possono senz'altro mettere.

1. Se il picchiato stava rubando non doveva essere picchiato ma andavano chiamati i carabinieri o la polizia.

2. Se  il picchiato aveva rubato altre volte doveva essere denunciato e non picchiato.

3. Se il picchiato non era un ladro e non aveva rubato non andava picchiato.

Insomma, comunque sia, l'uomo in camice bianco ha sbagliato. E io aspetto che le cronache ci facciano sapere cosa gli è successo.

Perché se è rimasto lì tranquillo nel suo market ci sarebbe davvero da preoccuparsi.

No, signor comandante

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"Forme di pressioni psicologiche gravissime sui piloti che portano anche ad incidenti aerei" (Agenzia Ansa, 22 settembre 2009, ore 15,57). Così ha detto Fabio Berti, presidente del sindacato dei piloti Anpac, e poco importa, sinceramente, che in serata abbia corretto il tiro.

Un professionista, a cui migliaia di persone hanno affidato, affidano e affideranno la propria vita, non deve pronunciare frasi del genere, mai. Il dovere di un comandante di aereo, se si sente sotto pressione, è uno solo: restare a terra.

Le maestre hanno ragione

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Maestre vestite a lutto.

Hanno torto? Hanno ragione?

Io penso che abbiano ragione. E questo anche se so che molte di loro hanno indossato il nero soltanto per difendere il posto di lavoro o per pigrizia verso il cambiamento, qualunque esso sia.

Hanno ragione perché una struttura complessa e delicata come la scuola, destinata a incidere profondamente sul futuro del paese, non si riforma d'estate a colpi di decreto.

Hanno ragione perché dietro gli slogan-guida del decreto non c'è traccia di una qualsivoglia elaborazione teorica.

Hanno ragione perché nessuno ha disegnato la scuola italiana del futuro. E le riforme vere non si fanno a pezzetti.

Hanno ragione, infine, perché nessuno si è confrontato con chi nella scuola lavora da decenni. Non foss'altro per sentire il suo parere e poi infiaschersene. Ma questo voglia di consenso e condivisione, si sa, è roba ammuffita, di sinistra.

Divise alle maestre? Non ho capito

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Laura Marsilio è assessore alla scuola del Comune di Roma e, secondo quanto riportano i quotidiani di oggi, 6 settembre 2008, ha pensato e proposto di far mettere la divisa alle maestre di asilo della capitale.

La mia prima reazione è stata un piccolo sorriso, di quelli con i quali siamo soliti liquidare cose di poco conto. Ma poi mi sono trattenuto perché non c'è da sorridere, ma da capire.

E io non ho capito. Lo dico senza ironia, ma proprio perché non riesco a comprendere la rilevanza che possa avere la questione. Una educatrice dell'infanzia è più dolce e più brava con o senza divisa? Quale differente effetto può avere sulla psiche di un bimbo la maestra con o senza divisa? Il denaro per comprare le divise sarebbe denaro speso bene?

Io non lo so.

Signora ministro, lei merita un bel tre

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Istantanea per il ministro Mariastella Gelmini alla quale mi permetto di dare un bel tre.

No signora ministro, non si torna al passato e non si può camuffare da rivoluzione quella che è una restaurazione.

Il passaggio dal voto ai giudizi non fu il vezzo di qualche ministro scriteriato e superficiale. Ma il risultato di riflessioni e dibattiti che animarono per anni il mondo della scuola. E, in qualche modo, la naturale continuazione di quella conquista di uguaglianza sociale che fu la scuola media unica. Un mezzo per far diventare la scuola di base uno strumento di formazione e non di selezione. Un mezzo, se si vuole anche discutibile nella sostanza, ma dal significato chiaro e univoco.

Ripristinare i voti vuol dire tornare al passato, a quando la scuola primaria era anche selezione e non solo formazione.

Questo è progresso? Questo è aiutare i più deboli o chi ha maggiori difficoltà? Questo è cercare di mettere tutti sullo stesso nastro di partenza della vita? Non penso proprio.

Vecchie parole, nuove emozioni

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Il discorso di Ted Kennedy alla convention democratica di Denver che incoronerà Barack Obama mi ha emozionato.

Forse mi ha emozionato perché parla un uomo a cui i medici danno poco da vivere. Parla con slancio ed energia, usa la retorica del politico americano navigato, tocca tasti e corde che sanno uscire dalla grande sala della convention.

Forse mi ha emozionato perché il momento in cui seppi dell'assassinio del fratello presidente è rimasto impresso nella mia memoria di bambino e quelle di Denver sono probabilmente le ultime parole pubbliche di un uomo di quella generazione dei Kennedy.

Forse, ad emozionarmi, sono state le ultime parole dell'intervento di Ted Kennedy. "The work begins anew. The hope rises again. And the dream lives on" (Il lavoro ricomincia. La speranza risorge. E il sogno continua).

Sono versi, perché di questo si tratta, che si possono bollare come un vuoto esercizio di retorica o dai quali ci si può lasciare cullare pensando non soltanto al sogno dei democratici americani.

Sono comunque parole e concetti che fanno parte della storia politica dei Kennedy. Lo stesso Ted ne usò di simili quasi trent'anni fa, quando nel 1980 perse le primarie contro Jimmy Carter. "The work goes on, the cause endures, the hope still lives, and the dream shall never die" (Il lavoro va avanti, la causa resiste, la speranza vive ancora, e il sogno non morirà mai).

Ecco i brani dei due discorsi

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Più ritmico quello di oggi, più secco quello di allora.

Comunque quando, dopo aver ascoltato il discorso di ieri, ho scoperto che il vecchio senatore aveva citato se stesso mi sono convinto che sono state proprie quelle parole ad emozionarmi.

Si, mi sono lasciato cullare. E qualche volta fa bene.

Là da dove partono i migranti

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Lampedusa vicina al collasso per il continuo arrivo di migranti dalle coste africane. Ancora cadaveri in mezzo al mare. Nessun segnale che il flusso di immigrazione clandestina verso il nostro paese si sia in qualche modo rallentato, anzi.

E' la prova, se mai ce ne fosse stato bisogno, che un dramma epocale come questo non lo si affronta facendo la voce grossa e mostrando i muscoli. Perché non c'è forza fisica capace di contrastare la disperazione collettiva.

L'unica strada vera, ma dura e difficile, è quella indicata, da anni, dai più sensibili e avveduti. Andare là da dove partono i migranti. E là cercare di dare uno sbocco al loro struggente bisogno di vita.

Un regalo di dieci minuti

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Bisogna dedicare dieci minuti del proprio tempo a vedere e ascoltare quest'uomo che decide della propria vita.

Alla fine si può arrivare a qualunque conclusione.

Che quest'uomo ha sbagliato perché non siamo noi i padroni della nostra vita.

Che quest'uomo ha fatto una cosa comprensibile ma non condivisibile.

Che quest'uomo, decidendo della propria vita, ha compiuto un atto giusto e umano.

Io propendo a ritenere che ciascuno di noi abbia il diritto di accettare o meno l'alimentazione e la respirazione artificiale. Negli anni ho cercato di riflettere molto prima di arrivare alla coscienza di questo diritto anche se la spinta decisiva me l'ha data quello che è accaduto accanto a me, alle persone più care.

Per questo Paolo Ravasin va ascoltato. Ci regala dieci minuti che, se lo vogliamo, possono farci capire molto della vita. Poi, naturalmente, restiamo liberi di pensarla come vogliamo.

Del dito medio

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Istantanea del fotoreporter del Mattino di Padova, Bianchi. Il dito medio di Umberto Bossi è lì bello alto, a insultare l'inno nazionale e a provocare le risa e gli applausi dei leghisti a congresso.

Che dito medio è quello di Bossi?

Potrebbe essere solo il dito che marca un'altra "bossata". E' possibile, anzi, quasi certo. In questo caso non metterebbe conto parlarne perché destinato a essere presto richiuso dallo scorrere rapido del tempo.

Potrebbe essere il dito da cui parte il federalismo alla Bossi, la sintesi suprema di come il leader della Lega concepisce i rapporti tra la Padania e le altri regioni d'Italia. E' possibile, anzi, quasi certo. In questo caso il dito indicherebbe con nettezza il venir meno del patto tra la Lega e un'ampia fetta del partito di Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini.

Potrebbe essere il dito che indica il senso dello Stato e delle istituzioni del ministro che deve guidare la riforma della nostra costituzione. E' possibile, anzi, quasi certo. In questo caso sarebbe un dito che sta facendo bene il suo mestiere perché fa capire, al di là di ogni ragionevole dubbio, che queste qualità non sono nel patrimonio genetico del capo della Lega.

L'elogio del cappero

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Questo è un cappero che sta per sbocciare.

E' un po' di tempo che seguo questa pianta forte e rigogliosa. L'ho curata e fotografata. Ne ho raccolto i bocciòli e i frutti. Ho lasciato che il sale facesse il suo lavoro. Poi ho capito cosa mi attrae di lei.

Mi ha conquistato perché è una pianta che sa crescere sui sassi, praticamente senza terra. Ogni anno è lì, pronta a dare se stessa a chi ha la pazienza e la tenacia di seguirla.

E perché, in fondo, una pianta di capperi è come una buona idea. Cresce e si sviluppa comunque. Basta che poi arrivi qualcuno a guardarla e a cogliere un bocciòlo.

Ecco. Oggi, nel nostro paese, abbiamo un disperato bisogno di piante di capperi e di qualcuno che ne raccolga i bocciòli.


Io sono un rom

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Una delle immagini più belle degli ultimi tempi. Una donna come Dacia Maraini ( e con lei c'erano Andrea Camilleri e tanti altri) che ha passato le proprie dita sui tamponi di inchiostro e si è fatta prendere le impronte digitali. Per dire no alla schedatura dei rom. Per protestare nel modo più alto e civile possibile contro una deriva odiosa.

Un gesto lontano mille miglia dalle urla sguaiate e anche dalla ricerca a tutti i costi del lato buono di un premier che sta ancora una volta mostrando la sua pericolosità.

Un gesto che, nella sua semplicità, fa tornare alla memoria momenti alti ed emozionanti della nostra storia, anche abbastanza recente.

Un gesto nel quale bisogna riconoscersi e, se necessario, ripetere tutti quanti una, dieci, cento, mille volte.

Se a Roma c'è la ministra Lewinski

Questa è un'istantanea senza immagine e, in parte, senza notizia. Almeno fino a questo momento.

Scrive Il Riformista di oggi, 2 luglio 2008, in un lungo e, sembra, informato articolo sulle intercettazioni. "La telefonata di... (segue nome e cognome del ministro) è quella più forte. Roba da paura. Uno scandalo. C'è lei che spiegherebbe a un'altra come trattare il premier... ( segue descrizione di una pratica già causa in un altro paese occidentale di impeachement)".

Tutto chiaro? Penso di sì. Anche il riferimento alla vicenda Clinton-Lewinski mi sembra abbastanza esplicito.

Così come sembra proprio che il contenuto delle intercettazioni che stanno mettendo a soqquadro la vita politica nazionale sia ormai prossimo ad essere rivelato.

Ma da chi? Ed è giusto rivelarlo?

Senza tanti discorsi facciamo una semplice simulazione. Se ciascuno di noi fosse il direttore di un giornale al quale un redattore mette sulla scrivania l'intercettazione (sempre ammesso che esista davvero)  a cui fa riferimento Il Riformista cosa farebbe? La pubblicherebbe? E come?

Io do la mia risposta.

Se la telefonata è la prova che un premier ha nominato ministro una sua amante occasionale che non ha nessun altro merito politico o sociale, non v'è dubbio che trattasi di notizia di prima grandezza. Di quelle che in un paese normale, da qualunque parte provengano, fanno cadere le teste con un colpo secco. Perché saremmo di fronte a un uso spregiudicato e personalistico della cosa pubblica. E a un abuso dei poteri ottenuti con un voto popolare.

Quindi pubblicherei sicuramente il contenuto della telefonata facendone capire compiutamente, e senza possibilità di equivoci, il significato. Avrei solo qualche riserva sulla divulgazione del testo integrale, ma è una decisione che potrebbe essere presa solo conoscendolo.