Istantanea Pier Vittorio Buffa

Uccidi il filippino

Non c'è un'istantanea del fatto di cronaca sul quale voglio soffermarmi oggi. Non c'è istantanea perché i protagonisti sono quasi tutti minorenni e gli episodi si sono svolti lontano da telecamere e riflettori. Mi riferisco alla piccola banda di ragazzi milanesi, dodici minorenni e quattro ventenni, accusati di aver dato la "caccia al filippino". Con coltelli, mazze, spranghe, catene. Colpendoli, ferendoli, insultandoli, minacciandoli. E raccogliendo tra amici e parenti comprensione e sostanziale solidarietà. Vogliamo chiamarlo un normale fatto di cronaca? Oppure un campanello di allarme? Oppure qualcosa di diverso e più forte? Per me è come si fosse accesa per l'ennesima volta quella spia che nelle automobili indica l'urgenza di andare dal meccanico. Perché quando accadono fatti del genere vuol dire che l'odio verso chi è nato altrove e ha magari la pelle e gli occhi diversi da nostri sta entrando nel tessuto connettivo di ampi strati sociali. E il meccanico potrebbe non arrivare in tempo.


Dove il tempo si è fermato

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Questa istantanea fa parte di un ampio reportage realizzato da una giovane fotografa napoletana, Valentina Quintano. Siamo nell'ospedale psichiatrico giudiziario, l'Opg, di Aversa cioè, detto in diverse e rudi parole, nel posto pove vengono chiusi i criminali dichiarati matti. L'ho visitato parecchio tempo fa quando la legge Basaglia era stata approvata da pochi anni. Si diceva, allora, che strutture del genere sarebbero scomparse, che il futuro dei malati di mente sarebbe stato diverso. Le foto in bianco e nero di Valentina Quintano dimostrano che, ad Aversa, il tempo si è fermato. Sono le stesse stanze, lo stesso squallore, le stesse facce disperate di allora. E, come allora, la drammatica violenza di una pena senza una durata determinata.

Emma

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"Nessuna convenienza mi indurrà a rinnegare un legame politico e umano che non è negoziabile". E' stata questa bella frase che le è stata attribuita a farmi andare a cercare una foto di Emma Bonino. La convenienza sarebbe quella di entrare nel partito democratico da sola. Il legame non negoziabile è quello con Marco Pannella.

Brava. Comunque andrà a finire questa vicenda, brava.

Anche se politicamente si può condividere o meno la scelta.

Anche se si pensa che la vitalità di Emma Bonino farebbe bene al nuovo partito.

Anche se si è convinti che i legami politici non sono eterni.

Il vento del capitano

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Un capitano dei carabinieri (Fabio Muscatelli, nell'istantanea tratta dalla Stampa), un procuratore della Repubblica, il comando generale dell'Arma, la squadra mobile.

La storia l'ha portata fuori dai confini del Molise un articolo della Stampa ed è così riassumibile. Un capitano si dà molto da fare, indaga e denuncia, fino a toccare un ex sindaco, sua moglie e un colonnello suo diretto superiore. Da Roma arriva l'ordine di trasferimento per "incompatibilità ambientale". La procura della Repubblica di Larino, per la quale il capitano aveva indagato, reagisce con durezza spedendo poliziotti della squadra mobile nelle caserme dei carabinieri con un ordine preciso: sequestrare la documentazione sul trasferimento del capitano.

Non ho elementi per entrare nel merito della storia, non conosco gli atti, come si dice in questi casi. Ma, con gli anni, ho imparato a guardare con grande rispetto persone normali che svolgono il loro lavoro con grande impegno, mettendosi completamente in gioco. Il capitano Muscatelli potrebbe essere una di queste persone. Talvolta uomini così soccombono, in altri casi riescono ad arrivare sino in fondo portando con sé un bel vento fresco.

Ecco, io spero che il capitano sia una persona normale capace di regalarci, alla fine di questa brutta storia, una bella folata di vento fresco.

Un brutto pensiero

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Un'istantanea alla quale delego la rappresentazione del mio stato d'animo il giorno dopo la sfiducia del Senato a Romano Prodi.

Tutto quel nero è dentro di me non solo per quello che vedo e leggo. Ma anche per un pensiero che mi sta assalendo in modo troppo ricorrente. Per la prima volta ho la tentazione di non rispondere alla chiamata dei prossimi comizi elettorali, di non andare a votare. Perché quando un anno e mezzo fa ho dato il mio voto all'Unione pensavo di sottoscrivere un patto con persone per bene. La congerie di partiti che ne faceva parte aveva sottoscritto un programma, doveva rispettarlo e governare per cinque anni. Considerazione banale e ingenua? Forse.  Ma è anche il fondamento di una democrazia sana.

Quel po' di chiaro, là in fondo, è la speranza. Che si faccia una riforma elettorale, che un gruppo di persone per bene sottoscriva un patto chiaro impegnandosi davvero a rispettarlo. A quel punto, solo a quel punto, quel brutto pensiero ricorrente potrebbe sparire.

Gaza, Prodi e il raggio di luce

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Un muro, quello di Gaza, fatto saltare per fame e disperazione. Un popolo, quello palestinese, che cerca cibo e medicine. Gli eserciti che lasciano scorrere il fiume umano senza imbracciare le armi.

E' un'istantanea, quella diffusa dalla Reuters, che ha squarciato con un raggio di luce una giornata, quella del 23 gennaio 2008, assai buia per il nostro paese.

Mentre sto scrivendo questo post ancora non si sa se Romano Prodi si dimetterà o meno.

Ancora non si sa se Clemente Mastella starà al centro o a a destra, o chissà dove.

Ancora non si sa cosa ci riserva Umberto Bossi.

Ancora non si sa se e quando andremo a votare e se ci toccherà il Porcellum, il Vassallum o il Bianco.

Per questo mi sono crogiolato al raggio di luce di Gaza. Perché oggi, come da molti giorni, da casa nostra non ne arrivano. E, temo, non ne arriveranno per molto tempo.

Il passo avanti di Livia

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Istantanea per Livia Turco, ministro della Salute. Prima un'intervista al Corriere della Sera, poi la diffusione della lettera inviata al presidente del Consiglio superiore della Sanità, Franco Cuccurullo, per far sapere come la pensa sull'aborto e sulla legge 194. La sintesi è nello stesso titolo del Corriere: "La legge non si tocca ma rivediamo i limiti". Il ministro ricorda come da trent'anni a questa parte gli aborti si siano dimezzati e chiede al consiglio superiore un parere per stabilire la soglia oltre la quale la gravidanza non va interrotta.

E' un intervento che mi è piaciuto. Perché non è retorico, parte dalla realtà, fa un preciso riferimento alla personalità femminile e al rapporto madre-figlio. E fa un passo avanti per cercare di dare certezze ai medici che devono prendere le decisioni finali. Il che non è davvero poco in un momento in cui si pensa di tornare indietro, di stabilire divieti che portano dolore, emarginazione e ingiustizia.

Le parole che ci vorrebbero

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Lo so, non è molto fantasioso chiudere il 2007 con un'istantanea di sessant'anni fa. Eppure questo scatto in bianco e nero, con il capo provvisorio dello Stato Enrico De Nicola che firma il testo della Costituzione italiana, sarebbe da tenere incorniciato sul comodino o sul tavolo.

Alle parole contenute in quel libro dobbiamo molte delle cose buone degli ultimi sessant'anni. Soprattutto, direi, l'insieme di garanzie, diritti e contrappesi istituzionali che ha garantito la crescita di una società fondamentalmente giusta.

Alle parole contenute in quel libro dobbiamo anche le difese immunitarie impiantate nelle nostre istituzioni il 1° gennaio 1948. Il sistema messo a punto dai costituenti è sopravvissuto alle tempeste politiche ed è riuscito a non soccombere, proprio per le sue difese immunitarie, al gioco quotidiano dei partiti.

Oggi, che compiono 60 anni, non voglio fare l'elenco delle parole di quel libro che andrebbero cambiate per rendere più moderna e stabile la nostra democrazia. Voglio festeggiarle e basta.

Semmai solo rimpiangere quelle che non ci sono. Le parole che avrebbero dovuto fissare con più precisione i confini del sistema elettorale. Che avrebbero dovuto impedire che i partiti contrattassero una riforma così delicata e importante sotto il ricatto di un referendum, di formazioni dalla consistenza irrisoria e pensando soprattutto al proprio tornaconto immediato.

E da qui nasce l'augurio per il 2008. Che alla fine veda la luce una legge elettorale sana, capace di dare stabilità e serenità politica per un bel po' di tempo. Proprio come, nel 1948, fecero le parole della Costituzione con la neo-democrazia italiana.

Quel confine doloroso

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La notizia diffusa dal chirurgo-senatore Ignazio Marino (nella foto) è semplice: nel 62 per cento dei casi di "fine vita" i medici praticano la desistenza terapeutica, ma in segreto. Smettono cioè di curare il proprio paziente senza dichiararlo, parlando con la propria coscienza e, magari solo attraverso un cenno, con i familiari della persona a "fine vita".
Io so di cosa si tratta perché ho avuto accanto a me persone care a "fine vita". So cos'è il cenno del medico che dice, magari abbassando lievemente gli occhi, di non dare più una certa medicina. Conosco i suoi silenzi. Mi sono trovato sul confine di cui ha parlato Marino.

Un confine non definito e doloroso sul quale non è giusto trovarsi.
Non è giusto per i medici. Non è giusto per chi è vicino al malato. Non è giusto per il malato.

Un confine che una legge non basterà mai a definire del tutto perché ci sono stati d'animo e sensibilità che nessuna norma può cristallizzare. Ma passi avanti sono possibili, un quadro di riferimento potrebbe essere costruito. Quella del testamento biologico è una strada. Anche solo iniziare un serio e pubblico dibattito nelle aule parlamentari potrebbe essere il primo paletto capace di circoscrivere quel confine doloroso.

L'Italia del 12 dicembre

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La strofa di una canzone diventata molto popolare e una foto di 38 anni fa, quella della Banca Nazionale dell'Agricoltura di Milano poco dopo la strage di piazza Fontana. C'è chi fa partire dal 12 dicembre 1969 quella che è stata l'Italia degli ultimi quarant'anni. Nel male e nel bene. Con il terrorismo e la violenza degli anni Settanta e Ottanta, con le trame che ne hanno inquinato la vita. Ma anche con la voglia, una voglia intensa e struggente  nutrita proprio dall'orrore per quella bomba, di cercarsi un futuro migliore e più libero, di costruire un paese moderno e giusto.

Questa mattina ho dedicato mezzora al 12 dicembre. Ho messo su il disco di De Gregori, quello in vinile, un po' consumato, ho sfogliato il libretto intitolato La strage di Stato, ho scorso i titoli dei giornali. Poi mi sono messo a scrivere questa breve istantanea per cercare di placare la reazione spontanea alla mia "mezzora del 12 dicembre".

Perché oggi è il 12 dicembre dei Tir che bloccano l'Italia, dell'inchiesta su un ex presidente del consiglio che si sarebbe comprato alleati e sostenitori, della trattativa estenuante su una legge elettorale che metta tutti d'accordo, della maggioranza di governo che non riesce a rispettare gli impegni. E mi viene di essere pessimista, di pensare che quella voglia, quella intensa e struggente voglia, non abbia portato a nulla. O quasi.

Ma forse, appunto, sono pessimista. Troppo.

Sono proprio arrabbiato

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Pensavo che cinque anni di Silvio Berlusconi alla guida dell'Italia fossero stati sufficienti a far capire che la sola prospettiva di un raddoppio sarebbe stata capace di tenere unita la sinistra italiana.

Pensavo che cinque anni di opposizione a vedere, impotenti, quello che può fare una destra populista, fossero stati sufficienti a far mettere da parte, alle formazioni del centrosinistra, beghe e interessi di parte.

Pensavo che l'impegno assunto dall'Unione di governare l'Italia seguendo il programma sottoscritto fosse sufficiente a tenere insieme, per cinque anni, chi aveva fatto quelle promesse.

Pensavo che i miei voti per Prodi alle primarie e per un partito dell'Unione alle politiche del 2006 sarebbero stati ripagati con almeno cinque anni di governo-governo, spesi pensando al bene del paese e non a se stessi.

Pensavo tutto questo e mi sbagliavo.

Me lo ha fatto capire, se mai ce ne fosse stato bisogno, Fausto Bertinotti quando ha detto, in un'intervista a Repubblica, che il governo "soppravvive", che "questo centrosinistra ha fallito". E questo un anno e mezzo dopo il mio voto che dava a questo centrosinistra il mandato di governare.

No, così non va bene.

E quel mio voto mi dà il diritto di essere proprio arrabbiato.

La bandiera bianca di Pentola Nera

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Il 29 novembre è l'anniversario del massacro di Sand Creek. In quell'alba del 1864 centocinquanta indiani Cheyenne vennero trucidati dai soldati americani comandati dal colonnello John Chivington. Donne, bambini e vecchi compresi. E' un massacro famoso, cantato anche da Fabrizio De André in una delle sue canzoni più toccanti, Fiume Sand Creek. (Qui il testo).

Me ne sono occupato tempo fa, quando cercavo tracce delle bandiere bianche tradite, di quando cioè il simbolo della pace non era stato rispettato. Così mi imbattei nel capo Pentola Nera e nei suoi indiani, nella bandiera bianca sventolata sopra le tende, nelle urla e nel sangue dei Cheyenne, nelle testimonianze agghiaccianti che condannano senza appello il colonnello e i suoi uomini.

Ecco, è per quello pezzo di stoffa bianca alzato invano che questa istantanea è dedicata a Pentola Nera e ai suoi Cheyenne. Perché non ci si dimentichi che il tradimento lascia, nella storia dei popoli, tracce spesso indelebili. E che non dovrebbe mai essere il prezzo da pagare al progresso.

Qui la ricostruzione del massacro con le deposizioni dei testimoni oculari

Le colpe dei padri

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Andiamo ancora più indietro nel tempo, ricordiamoci di Vittorio Emanuele II, primo re d'Italia. Il re dell'incontro di Teano e dei discorsi scritti con la grafia francese per quanto poco conosceva la lingua del suo nuovo regno. Andiamoci non per dare, in poche righe, giudizi storici su una dinastia, ma per sottolineare un tema più volte richiamato nei commenti al post "Con la storia, signori Savoia, non si scherza".

E' giusto che i discendenti (leggi il Vittorio Emanuele di oggi e suo figlio Emanuele Filiberto) paghino per le colpe o le responsabilità degli avi?

In linea di principio no. Se mio nonno era un assassino io non ne ho colpa. Se mio padre era un ladro io non ne ho colpa. Caso mai, se la legge lo prevede, posso, in casi precisi, avere una responsabilità civile. Punto e basta.

Ma se mio padre era un re, come pure il nonno, il bisnonno e il trisavolo, la questione cambia. Io devo, se sono persona seria e responsabile, condividere le responsabilità della mia dinastia. Perché io, di quella dinastia, sempre se sono persona seria e responsabile, porto il peso di fronte a me stesso, di fronte ai miei figli, di fronte a chi è stato suddito dei miei avi e, soprattutto, di fronte alla storia.

Nessuno dirà mai a un Emanuele Filiberto che è colpa sua se suo nonno firmò le leggi razziali o se scappò da Roma. Però sarebbe sua responsabilità fare i conti storici con quei comportamenti e portarne tutto il peso nell'eredità che rivendica. Se lo facesse si renderebbe conto che la bilancia pende tuttora, in modo pauroso, dalla parte dei Savoia e che a essere in debito non è la sua famiglia, ma il popolo italiano.

Ma questa è cosa, appunto, da persone serie e responsabili.

Con la storia, signori Savoia, non si scherza

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Appena le agenzie di stampa hanno battuto la notizia che la famiglia Savoia ha chiesto i danni allo stato italiano per l'esilio e per i beni confiscati ho riletto il lancio almeno un paio di volte. Poi sono andato istantaneamente a cercare una immagine di Vittorio Emanuele III. Il re che ha lasciato Mussolini a guidare il nostro paese, che ha firmato le leggi razziali, che l'8 settembre è fuggito. Mentre lui, il re, mandava a comprare un pigiama a Brindisi dove era arrivato a bordo della corvetta Baionetta, mio padre combatteva a Porta San Paolo, altri padri, a migliaia, morivano per non essersi arresi ai tedeschi o venivano caricati sui treni che portavano alla prigionia. Altri ancora lasciavano le caserme senza sapere dove andare. Chi cercava di tornare a casa, chi cominciava a pensare alla guerra partigiana. E poi i quasi due anni dell'occupazione tedesca, il paese diviso in due, i massacri, la fame, la morte.

E oggi i discendenti di quel re prendono carta e penna per chiedere un risarcimento allo Stato italiano? Sembra uno scherzo e invece pare proprio l'abbiano fatto. Palazzo Chigi è stato inceccepibile e ha risposto tramite il segretario generale della presidenza del consiglio Carlo Malinconico. Il Governo, ha detto, non solo non ritiene di dover pagare nulla ai Savoia, ma pensa di chiedere a sua volta i danni all'ex famiglia reale per le responsabilità legate alle note vicende storiche.

No, non era uno scherzo. Perché con la storia, signori Savoia, non si scherza.