Istantanea Pier Vittorio Buffa

L'Alcatraz italiana

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L'ultima settimana ho passato qualche giorno sull'isola di Ventotene per seguire un convegno sul carcere di Santo Stefano, il vecchio ergastolo abbandonato, e per capire se davvero ha senso impiegare energie e risorse per sistemarlo e dargli un futuro. Il governo ha infatti stanziato 70 milioni per rimettere in piedi il carcere. L'interrogativo, quindi, è legittimo. Sono arrivato alla conclusione che, a certe condizioni, ha molto senso recuperare quel pezzo di storia d'Italia. In un articolo sull'Espresso cerco di spiegarlo. Lo si può leggere qui 

Il giovane vecchio

Matteo-RenziA Matteo Renzi è riuscita un'operazione eccezionale. In un paio d'anni da giovane che era è diventato vecchio, quasi da rottamare anche lui.

I giovani-giovani e le periferie delle grandi città hanno votato Cinque stelle.

Chi dà maggior credito al Pd, stando alle analisi di voto, sono gli anziani più agiati.

Il Pd non è più, o quasi non è più, il primo partito.

La risposta più forte di Renzi, a tutto questo, sembra, a tutt'oggi, quella di rinnegare l'alleanza con Denis Verdini. Altro che Prima Repubblica, come si dice in questi casi...

Un processo involutivo inarrestabile?

No, a patto che...

A patto che il Pd  torni a essere quello che non è da tempo. Un partito (o un movimento) capace di vivere dove vivono gli italiani. Non chiuso nei suoi palazzi.

A patto che il Pd non sia, e non dia più di sé, l'immagine di un partito di un uomo solo.

A patto che il Pd riesca a non togliere aria e forza a tutte le anime che cercano di convivere al suo interno.

 

 

 

Hotel Regina Coeli

_D8E6787Regina Coeli, San Vittore, Poggioreale. Il dibattito sul destino delle tre grandi carceri che vivono nel centro di tre grandi città (Roma, Milano, Napoli) è innestato. Il governo sta approntando un piano per vendere i grandi e obsoleti istituti ai privati e costruire carceri moderne alle periferie delle città. Nulla da eccepire sul piano penitenziario. Chi anche solo per un attimo si è affacciato al di là dei cancelli di Regina Coeli piuttosto che di San Vittore o di Poggioreale, sa quanto alla pena della privazione della libertà si aggiunga quella di vivere in strutture secolari e inadeguate.

Ma cosa fare di questi enormi complessi? La loro storia è strettamente intrecciata con quelle delle città. In quelle celle, in quei corridoi, in quei cortili generazioni e generazioni di italiani hanno sofferto. Poco importa che fossero colpevoli o innocenti. I luoghi di sofferenza vanno rispettati. Così come vanno rispettati i luoghi che hanno visto passare la storia del nostro paese. Negli anni dell'occupazione nazista e della Repubblica sociale nelle grandi carceri cittadine sono stati rinchiusi uomini della resistenza ed ebrei, dalle celle di Regina Coeli vennero prelevati i martiri delle Fosse Ardeatine... Per tutto questo l'idea, di cui già si parla, di sfruttare economicamente questi complessi (alberghi, centri commerciali...) mi ripugna.

Posti così dovrebbero diventare centri di aggregazione culturale, di memoria storica, di studio. Non posti dove divertirsi e dimenticare quello che sono stati.

Alla fine del mondo, a Ushuaia, nella Terra del Fuoco, c'è il carcere intorno al quale nacque la città. Una volta dismesso è diventato un museo (nella foto) in cui si racconta, cella per cella, la storia di quella parte di mondo, Ci sono le storie dei prigionieri e dei velieri scomparsi, degli avventurieri e dei santi, della gente comune e dei generali.

E Alcatraz, in mezzo alla baia di San Francisco? Poteva diventare uno straordinario albergo a cinque stelle. Ma gli americani lo hanno preservato com'era. E adesso nelle celle e lungo i corridoi raccontano, alle decine di migliaia di turisti che lo visitano, la storia di banditi ed evasi. Molto all'americana, ma in modo efficace.

In Italia c'è un progetto simile appena abbozzato. Riguarda l'ex ergastolo dell'isola di Santo Stefano, a un miglio da Ventotene, nell'arcipelago pontino. Un sostanzioso stanziamento del governo vuol far diventare quell'enorme e ormai fatiscente struttura, in cui soffrirono e morirono migliaia di persone e dove venne rinchiuso anche Sandro Pertini, un centro di cultura europea.

Ecco, si faccia lo stesso con le grandi carceri cittadine. Diventino i gangli di un tessuto capace di costruire e tenere viva la memoria storica del nostro paese.

Gli alberghi no, per favore. Proprio no.

 

 

 

Il gigante e lo spinello

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Era il 1975, avevo 23 anni e il Secolo XIX, il giornale che mi aveva da poco assunto, mi mandò a via di Torre Argentina, la sede storica del partito radicale. Lì c’era Marco Pannella che ne aveva inventate una delle sue, tra le prime e più clamorose. Aveva deciso di fumare uno spinello davanti a un poliziotto e farsi così arrestare. Una forte azione contro la legge che, allora, ordinava la "cattura" di chiunque e comunque detenesse sostanze stupefacenti.

Pannella, in una stanza affollata e carica di tensione, accese lo spinello e il commissario di polizia presente, capo della narcotici, lo arrestò. Il poliziotto era Ennio Di Francesco, un uomo che sarebbe stato tra i sostenitori della riforma della polizia e che, dopo averlo fatto andare a Regina Coeli, gli mandò un telegramma riservato di solidarietà che Pannella rese quasi subito pubblico.

Io assistetti come inebetito a quell’evento. Pannella mi apparve un gigante che metteva in gioco la propria libertà personale in nome di un principio al quale credeva. Mi insegnò più quel gesto, che considerai estremo ma condotto con calma e serenità, che tanti libri e discorsi. E poco importa che poi, negli anni, mi sia trovato, come tanti, in disaccordo con molte sue posizioni. Per quel pomeriggio gli sono stato, gli sono e gli sarò sempre grato. Tantissimo.

Nella foto: quel pomeriggio a Torre Argentina. Pannella fuma lo spinello davanti al capo della narcotici Ennio Di Francesco, l'ultimo a destra

Il senso di una sfida

schwazer donatiNon volevo parlare di Alex Schwazer e della polemica sulla sua eventuale partecipazione alle Olimpiadi con la maglia azzurra.

Poi ho visto questa foto, lui che marcia con al fianco Sandro Donati.

Siamo di fronte a un uomo, Alex Schwazer, che aveva fatto dell'atletica la sua ragione di vita. Poi ha sbagliato, come un atleta non dovrebbe mai fare. Ha ammesso e riconosciuto il proprio errore. Ha scontato la pena giustamente inflittagli. E si è affidato a un uomo, a Sandro Donati, che ha una ragione di vita ben precisa e forte: la lotta al doping.

Schwazer si e' allenato, ha camminato, marciato. Ha fatto, senza doping, progressi straordinari. Donati accanto a lui in bicicletta è lì a dimostrarlo.

Ed è per questo che vorrei vedere Alex Schwazer a Rio de Janeiro.

Sarebbe una straordinaria bandiera contro il doping, contro chi si droga per guadagnare un secondo o un minuto. Sarebbe la prova, per tutti, che non serve doparsi per vincere.

Forza Alex. Forza Sandro.

Perché no

Riforme:Renzi,non so se lieto fine ma è buon inizio

Se la legge di modifica della Costituzione, da poco approvata dal Parlamento, verrà sottoposta a referendum confermativo voterò no.

  • No alla dichiarata volontà del presidente del Consiglio Matteo Renzi di far diventare questo voto un plebiscito pro o contro di lui. Una legge destinata a incidere per decenni sull'assetto istituzionale del paese la si costruisce condividendo il più possibile i principi su cui si fonda. Non a colpi di maggioranza o grazie a ultimatum politici.
  • No allo squilibrio istituzionale che creerebbe. Viene analizzato compiutamente dai cinquanta giuristi che hanno sottoscritto un documento "contro" la legge che condivido integralmente. Qui mi limito a sottolineare la più macroscopica distorsione. Questa legge, combinata con la legge elettorale approvata l'anno scorso (l'Italicum), rischia di dare a una sola parte politica, con una forza iniziale anche inferiore al 30 per cento dei voti validi, un enorme potere privo di adeguati bilanciamenti. Semplificando al massimo: un partito con il 25-30 per cento dei voti capace poi di vincere le elezioni al ballottaggio e quindi di ottenere la maggioranza assoluta della Camera (340 deputati) potrebbe, nel giro di qualche anno, controllare, oltre al governo, i posti chiave delle istituzioni, proprio quelli che garantiscono equilibrio e controllo dell'attività dell'esecutivo. Il presidente della Repubblica, visto lo squilibrio numerico tra Senato e Camera, potrà essere eletto dai deputati della maggioranza più un pugno altri parlamentari. E di conseguenza la stessa maggioranza potrebbe arrivare a controllare la Corte costituzionale con i tre giudici eletti dai deputati e i cinque nominati dal presidente della Repubblica.
  • No al falso risparmio. Uno degli obiettivi dichiarati della riforma è stato risparmiare sulle spese della politica. Il mezzo per raggiungerlo è stato, in sostanza, l'abolizione delle indennità dei senatori non più eletti direttamente. Ma i deputati sono sempre 630 e il Senato "a mezzo tempo" che è stato concepito non ha quei poteri di controllo e di indagine indispensabili in un sistema che dà così tanta forza a chi vince le elezioni. Non sarebbe stato meglio avere soltanto 500 parlamentari, tutti eletti direttamente dai cittadini? Quattrocento deputati e cento senatori, i primi che danno la fiducia al governo, i secondi capaci di esprimere davvero le esigenze del sistema regionale e di controllare (non ostacolare, non intralciare) l'azione del governo? Si sarebbe risparmiato molto di più e ne sarebbe nato un sistema decisamente più equilibrato.
  • No al "tutto o niente". Alcuni principi base della riforma (abolizione del bicameralismo perfetto, maggiore incisività dell'azione di governo...) sono sacrosanti. Ma vengono travolti dalle molte storture.

Ventiduemila morti in cerca di giustizia

cover-libro-stragi-697x1024Sta per diventare pubblico l'Atlante delle stragi naziste e fasciste. Un gran lavoro portato avanti da un gruppo di studiosi, firmato dall'Anpi e dall'Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia (Insmli) e finanziato dal "fondo italo-tedesco per il futuro". Si tratta del primo e completo database sui crimini commessi da nazisti e fascisti durante i 21 mesi della guerra in Italia, dal luglio del 1943 all'inizio del maggio 1945.

Il risultato e' scioccante perché va oltre ogni stima fatta finora. Gli studiosi, escludendo i morti durante i combattimenti, hanno contato 5.300 episodi che hanno provocato la morte di 22.000 persone. Tutte indicate con nome e cognome. E accanto al loro, dov'è stato possibile, c'è il nome dei carnefici identificati.

Ventiduemila persone: civili, donne, bambini, vecchi. La più grande tragedia che ha travolto la popolazione civile italiana, come non si stancava di ripetere Franco Giustolisi, l'autore dell'Armadio della vergogna.

Tragedia nascosta per decenni dall'oblio e, soprattutto, com'è ormai dimostrato, dall'opportunismo politico.

I processi celebrati negli ultimi 15 anni e che hanno portato a decine di condanne all'ergastolo hanno cercato di dare giustizia alle vittime di allora e ai sopravvissuti. Ma la mancata esecuzione delle condanne è suonata e suona come un'ulteriore beffa.

Questo Atlante si presenta come un altro, diverso tentativo di fare giustizia. Non con le carte processuali, ma con la ricerca storica, stabilendo fatti, protagonisti, correlazioni. Un tipo di giustizia che non si può considerare soddisfacente ma che ha la sua importanza. Potrebbe riuscire a togliere ogni singola vittima dal proprio isolamento. Potrebbe ricondurre la sorte di ciascuno a un comune e tragico destino.

E' però obbligatorio porsi una domanda.

I processi non sono stati fatti nel secolo scorso perché le carte erano state nascoste. Per un atlante come quello che sta per diventare pubblico non servivano fascicoli processuali. Perché si è aspettato tanto?

La guerra vista da lontano

Per la prima volta nella vita mi è capitata una cosa terribile ed eccezionale. Assistere a quello che è successo nel cuore dell'Europa a 13000 chilometri di distanza, dall'altra parte del mondo e senza efficienti strumenti di comunicazione.

Terribile perché la lontananza ti trasmette un senso di impotenza. Non perché se fossi stato a Roma avrei potuto fare qualcosa. Ma perché sembra di essere fuori dal tuo mondo. Senza possibilità di essere vicino a chi si trova direttamente coinvolto. Senza poter condividere un momento così cruciale con le persone con le quali, fino a oggi, hai condiviso tutto.

Eccezionale perché sapere di bombe e kamikaze mentre ti trovi immerso in una natura che vive solo per se stessa provi un senso di sgomento mai provato prima. Perché capisci, con la forza che il contrasto tra la morte e la vita che qui scorre placida ti da, che c'è una guerra in corso.

Così ti viene una gran voglia di restartene lontano. Voglia subito scacciata dalla consapevolezza che il tuo mondo è quello di Bruxelles, dell'Europa, e che è lì che devi vivere la tua vita, non ne puoi e non ne devi fuggire. Perché quando c'è una guerra che coinvolge il tuo mondo, il tuo paese non si fugge. E questa è proprio una guerra che riguarda ciascuno di noi.

Giustizia negata

Nelle ultime settimane ho dedicato del tempo a leggere le carte della commissione di indagine sulle stragi nazifasciste messe online dalla Camera dei deputati. Non si tratta dei fascicoli chiusi nell'Armadio della vergogna ma di tutto (o quasi tutto) quello che la commissione ha acquisito durante i suoi lavori iniziati nel 2003 e finiti nel 2006. Sono migliaia di pagine con su stampigliato "Segreto", "Riservato", che confermano una verità che ancora si fa fatica a condividere. Una verità che la commissione stessa non riuscì a sottoscrivere (ci furono una relazione di maggioranza  e una di minoranza).

Una verità molto semplice e terribile. La giustizia alle vittime delle stragi venne negata in nome della ragion di stato, dell'opportunismo politico, della necessità di creare buoni rapporti politici ed economici con la neonata Repubblica federale tedesca.

Sono 22.000 i civili italiani uccisi tra il 1943 e il 1945 da nazisti e fascisti. E lo Stato, nel 1960, decise che non era il caso processare gli assassini, meglio vendere armi alla Germania...

Quello che ho trovato nelle carte l'ho scritto in un articolo pubblicato questa settimana dall'Espresso. Lo si può leggere qui.

Il monito dell'anforetta di Tobruch

IMG_3420Migliaia di uomini pronti a partire, la più grande spedizione militare italiana dal 1943. Incursori, marò, navi appoggio. Nelle cronache che annunciano come prossimo lo sbarco italiano in Libia c'è qualcosa di ineluttabile e quasi di trionfalistico. Un trionfalismo che in alcuni casi è davvero malcelato.

Così, dopo un anno, ho rimesso sulla mia scrivania l'anforetta di Tobruch che mio nonno, ufficiale di carriera, riportò dalla Libia occupata nel 1912 (e di cui parlai qui). L'ho messa sulla scrivania e l'ho guardata per un bel po' come feci un anno fa, quando si iniziò a parlare di una spedizione militare ormai prossima.

E' un'anforetta per me preziosa. Mi porta con sé in un viaggio nel tempo, mi fa riflettere. E lancia il suo monito che, anche questa volta, mi fa dire un paio di cose ovvie ma che spesso vengono dimenticate. Quando si parla di armi e di guerra bisognerebbe usare la massima cautela. E prima di premere il grilletto bisogna provarle tutte, davvero tutte.

Per questo ha fatto bene Matteo Renzi, come fece un anno fa, a moderare i toni e a chiedere equilibrio, prudenza e buon senso. E bene fanno personaggi come Romano Prodi a sottolineare i terribili rischi che una spedizione italiana in Libia porterebbe con sé. Meglio ascoltare parole come le sue che leggere di piani di battaglia.

 

 

Rifugiati, non basta un Nobel

Premio Nobel per la pace a Lampedusa e Lesbo, le due isole di frontiera. Le isole nelle cui acque sono morte e muoiono migliaia di persone. Le isole che, loro malgrado, sono diventate sinonimo di solidarietà e accoglienza. Lo ha proposto il regista Gianfranco Rosi, ha sottoscritto la proposta il premio Nobel Dario Fo.

Nulla da eccepire perché quella di Rosi è una di quelle idee che mettono tutti d'accordo e dalle quali è difficile dissentire. Ma sono proposte aderendo alle quali si ha la sensazione di mettere a posto la propria coscienza. "Ecco, sono talmente buono e sensibile, che sto appoggiando il Nobel alle due isole...".

No, non basta questo per mettere a posto la propria coscienza. Viviamo in un'Europa tesa e divisa, dove succedono cose come questa documentata nei due video qua sotto e descritte in questo articolo

Urla e insulti che poco hanno a che fare con regole di civile convivenza. Appoggiamo dunque la proposta di Rosi e Fo, ma non accontentiamoci, cerchiamo di combattere, ciascuno di noi nel proprio piccolo, una fobia dei propri simili che ha molto dell'animalesco e poco dell'umano. Combattiamola giorno per giorno, anche solo parlando, discutendo, convincendo. E usando le armi, come il voto, previste dalle nostre democrazie.

La banca degli evasori

espresso02Questa settimana L'Espresso dedica la copertina a una storia sconcertante, venuta alla luce dopo una lunga e meticolosa indagine della Guardia di Finanza e raccontata da Paolo Biondani. Più di 13.000 italiani avrebbero trasferito all'estero più di 14 miliardi di euro, attraverso società controllate dal gruppo Credit Suisse, un colosso bancario con 45.000 dipendenti. Il tutto in modo organizzato sin nei minimi dettagli dalla banca, tanto che il giornale titola il servizio "Manuale del perfetto evasore". I finanzieri hanno messo a nudo i meccanismi di questa maxi-evasione e trovato istruzioni dettagliate su come si devono comportare i funzionari della banca per eludere i controlli delle autorità italiane.

Ne esce il ritratto di un paese, l'Italia, terra di conquista di banchieri spregiudicati. I funzionari del Credit Suisse hanno istruzioni per muoversi nel nostro paese, alla ricerca di fondi da portare all'estero, come fossero in territorio nemico: cambiano albergo ogni tre giorni, non comunicano con la banca, usano mail criptate, non possono avere nel portafoglio nemmeno un biglietto da visita che faccia riferimento alla banca...

Insomma, se tutto questo verrà provato dall'inchiesta giudiziaria aperta dalla procura di Milano ci troveremmo di fronte a un piano criminoso architettato da una banca estera e messo in atto con la complicità di 13.000 nostri concittadini. C'è da augurarsi che, in caso di esito positivo dell'inchiesta, il tutto non venga liquidato come un normale caso di evasione fiscale ma che suggerisca provvedimenti eccezionali. Uno su tutti: impedire alla "banca in oggetto", che ha succursali a Roma, Firenze, Milano, Parma, Brescia e
Padova, di operare in Italia.

Cinque minuti per non dimenticare

15092012-120916_DSC1790Domani, 27 gennaio, è il Giorno della Memoria. E' il settantunesimo anniversario della liberazione del campo di concentramento di Auschwitz ed è il giorno scelto dall'Onu per ricordare le vittime dell'Olocausto. Con il tempo i significato di questa giornata si è allargato facendola diventare sempre di più l'occasione per ricordare, oltre alle vittime dell'Olocausto, le vittime di tutte le guerre e di tutte le violenze.

Non lasciamola passare come tante altre ricorrenze. Facciamola nostra, cioè di ciascuno di noi, dedicando almeno 5 dei 3600 minuti del nostro 27 gennaio al ricordo di quello che è stato e quello che è.  Ai genocidi e alle stragi di settant'anni fa e ai genocidi e alle stragi di oggi. Un omaggio a chi ne è stato vittima, un impegno a diffondere i principi di pace e fratellanza.

Possiamo leggere  una pagina di Primo Levi o un di un qualunque altro libro che parli delle terribili sofferenze di quegli anni (qui un ricco elenco).

Possiamo vedere un film (qui quelli in programma).

Possiamo andare davanti a una lapide o a un monumento, guardarci intorno e parlare con qualcuno di quello che quella lapide o quel monumento ricorda.

Possiamo usare il nostro social network preferito per far circolare un'immagine o un pensiero che ricordino ai nostri amici perché è importante sapere e ricordare.

Possiamo andare a uno qualunque dei tanti appuntamenti (qui un elenco).

Io, domani, sarò a Latina dove si parlerà di Shoah, si ascolterà musica e i ragazzi di due licei leggeranno le testimonianze dei sopravvissuti alle stragi nazifasciste raccolte nel mio libro Io ho visto. Se qualcuno di loro mi chiederà a cosa serve, dopo tanti anni, parlare di queste cose, risponderò come fece, due anni fa, l'attrice Pamela Villoresi. Uno studente, dopo che lei aveva interpretato le stesse storie, le chiese proprio così, 'a cosa serve?' Lei rispose di getto: "Vedete, se anche uno solo di noi, dei mille che siamo in questo teatro, uscirà da qui deciso a far di tutto nella propria vita perché non ci sian0 più fatti terribili come questi, vorrà dire che parlare di queste cose è servito, eccome".

(nella foto: le Gocce di Memoria a Marzabotto)

Frasi da non pronunciare

renziUna frase pronunciata da Matteo Renzi durante un'intervista a Repubblica tv è una frase che un leader politico non dovrebbe mai pronunciare.
"Se perdo sulle riforme lascio la politica", ha detto.
Questo vuol dire caricare il voto al referendum confermativo della legge che modifica la nostra costituzione di un valore del tutto diverso.

Non più approfondita analisi di merito di quello che cambia davvero la legge che ridisegna la nostra democrazia parlamentare. Non più confronto su quel che è bene e su quel che è  male.
Ma scontro radicale e definitivo. Sulla persona, sulla leadership: o con me o contro di me.

Un leader politico che vuole guidare a lungo un paese democratico dovrebbe convincere la maggioranza del paese che le sue riforme sono quelle giuste, che il paese che vuole ridisegnare e' un paese migliore.
Se tutto si riduce a un "O mi votate o me ne vado" siamo a una prova di forza che mal si concilia con il clima in cui dovrebbe crescere una sana democrazia parlamentare.

La scoperta dell'acqua calda

Sandro-Bondi-Oggi c'è un'intervista che dovrebbero leggere, e con molta attenzione, tutti coloro che negli anni hanno votato Silvio Berlusconi vedendo in lui una sorta di salvatore della patria.

E' l'intervista fatta dal vice direttore di Repubblica Dario Cresto-Dina a Sandro Bondi, "già ministro della Cultura precipitato dalla poltrona con un pezzo di Pompei nel 2011 e ex cortigiano naturale e convinto di Berlusconi".

Va letta tutta, parola per parola, ma qui ne riporto alcuni passaggi chiave.

Berlusconi, dice Bondi, "ci lasciava giocare con la politica e con le idee, fino a che non toccavamo la sostanza dei suoi interessi e del suo potere. Ricordo che, quando ero ministro, osai parlare di un canale televisivo pubblico dedicato alla cultura senza pubblicità. Subito, il pur mite Fedele Confalonieri mi redarguì bruscamente".

Le aziende venivano prima di tutto?, chiede Cresto-Dina.
"Sempre", risponde Bondi. "Al culmine della crisi del suo ultimo governo, Berlusconi, nonostante ciò che disse in seguito, diede il via libera a Monti durante una riunione a Palazzo Grazioli nel corso della quale ci fece preliminarmente ascoltare in viva voce ciò che ne pensavano Ennio Doris di Mediolanum e l'amministratore delegato di Mediobanca Alberto Nagel. In questo modo eravamo messi sull'avviso della sua decisione. Entrambi sostennero che la situazione economica e finanziaria del paese era disperata e non vi era altra possibilità che quella di dare vita a un governo tecnico sostenuto anche da Forza Italia".

Le parole di Bondi confermano quello che scrivevano giornalisti e giornali seri e che un pezzo d'Italia sapeva vedere nelle cronache di tutti i giorni. Una sorta, quindi, di scoperta dell'acqua calda.

Ma milioni di italiani non vedevano, non sentivano, non capivano. O, meglio, non volevano vedere, non volevano sentire, non volevano capire.

Se solo avessero ascoltato chi raccontava l'interesse privato che Berlusconi, ogni giorno, portava dentro Forza Italia e nel governo, il paese ne avrebbe certo guadagnato.

Così come ne avrebbe guadagnato se personaggi come Bondi non fossero rimasti sino all'ultimo accanto al "principe", ma, sapendo quello che sapevano, avessero fatto prima il loro "outing", togliendo ogni alibi a chi continuava a far finta di non capire.