Antonella Braga presenta Non volevo morire così

Un ricordo personale

Mi scuserete se inizierò con un ricordo personale. Otto anni fa (nel dicembre 2009 o nel gennaio 2010, non ricordo con precisione) in questa stesso luogo, invitata dall’amico Vittorio Cimiotta, presentavo un libro sulla storia del confino di polizia nell’isola di Ventotene, allora appena pubblicato dalla casa editrice “Ultima Spiaggia” e scritto da un’insegnante del luogo, Filomena Gargiulo. 

Nello scrivere la prefazione a quel volume, auspicavo che le ricerche sul confino di Ventotene proseguissero e che iniziassero quelle sul vicino penitenziario, costruito dai Borboni a fine Settecento sull’isolotto di Santo Stefano. Attivo fino agli anni Sessanta del Novecento, il carcere di Santo Stefano ha ospitato nel corso del tempo anche i giacobini della Repubblica partenopea, i patrioti del Risorgimento come Luigi Settembrini, gli anarchici come Gaetano Bresci e gli antifascisti, come il Presidente dell’Assemblea costituente, Umberto Terracini, e il presidente della Repubblica, Sandro Pertini. 

In quell’occasione osservavo: “Oggi, per incuria, questa storia secolare rischia di perdersi, di sbriciolarsi come le mura che cadono sotto il peso degli anni o di essere seppellita dall’erba che invade il piccolo cimitero in cui sono sepolti i prigionieri di cui nessun parente o amico reclamò mai il corpo.”

A otto anni di distanza, il libro di Pier Vittorio Buffa è il primo tentativo di porre rimedio a questa incuria. Confesso che, per un attimo, pensai allora di poter trovare anch’io il modo e il tempo di dedicarmi a questo lavoro di ricostruzione storica, andando alla ricerca dei documenti conservati presso il carcere di Cassino. Le vicende della vita hanno poi deciso per me diversamente e sono davvero contenta che la sorte abbia portato proprio Pier Vittorio Buffa a indagare quelle carte a rischio di dimenticanza.

Conosco e stimo Pier Vittorio Buffa per un legame che la sua precedente ricerca ha stabilito con alcune comunità del mio territorio, come Borgo Ticino, toccate dalle stragi nazifasciste, i cui responsabili, benché individuati nel primo dopoguerra, sono stati solo tardivamente perseguiti a causa dei fascicoli sepolti nel cosiddetto “armadio della vergogna”, di cui ha scritto per primo Franco Giustolisi, che di Buffa è stato maestro e compagno.

Una lente di ingrandimento

Ciò che mi colpì nel suo lavoro dedicato alle stragi nazifasciste era la capacità di indagare nelle pieghe della storia, per far emergere le piccole storie individuali, i ricordi personali dei sopravvissuti, dando quel calore umano senza cui la storia è semplice cronaca o fredda astrazione. Ben lo sanno gli insegnanti che solo così l’apprendimento della storia acquista interesse e significato agli occhi degli studenti; altrimenti resta una minestra fredda riscaldata di date, luoghi e nomi senza valore.

Quest’intento di “umanizzare” la ricostruzione storica è esplicito sin dal titolo dei volumi di Buffa, che è declinato alla prima persona singolare: quello dedicato alle stragi nazi-fasciste si intitola Io ho visto (ed è diventato una spettacolo teatrale con Pamela Villoresi, ispirando anche una canzone di Luca Bussoletti Sussidiario di un vecchio bambino); il secondo volume, quello di cui parliamo oggi, si intitola Non volevo morire così e si presterebbe ugualmente a una trasposizione teatrale.

L’uso della prima persona coinvolge direttamente il lettore, lo mette in situazione, sollecita la sua capacità di immedesimazione e, contemporaneamente, evidenzia il carattere unico e irripetibile di ciascuna esperienza umana, non assimilabile in nessuna categoria generale. Come sosteneva Hannah Arendt, “Non l’Uomo (in astratto), ma gli uomini (i singoli uomini) abitano la terra” e la “pluralità” è le legge di questo mondo.

 

L’albero e le foglie

Non so più dove (mi sembra fosse in uno scritto di Leonardo Sciascia), ho letto una metafora sulla conoscenza storica che mi ha molto affascinato: la storia umana è come un grande albero, che a ogni stagione rinnova le sue foglie, produce fiori, frutti e semi e, venuto il tempo, si spoglia, resta nudo nell’inverno, aspettando un nuovo risveglio. La storia individuale di ciascuno di noi è rappresentata dalle foglie che nascono e cadono ai piedi dell’albero. 

La maggior parte di noi cade senza far rumore, senza lasciare tracce dietro di sé. Resta la pianta che continuamente si rinnova. Le foglie volano via, di loro si smarrisce la memoria sebbene ognuna di loro abbia una sua storia da raccontare e vorrebbe essere ascoltata.

Non tutti gli storici hanno la pazienza di fermarsi ad ascoltare anche la voce delle foglie più fragili e pochi hanno la sensibilità di comprendere. I più passano oltre, tracciano quadri esplicativi, linee interpretative, nessi causali. Ed è giusto, è il loro mestiere, ma un poco l’“umano” si perde.

Nei testi di Buffa questo non accade. In questa “Spoon river” di  morti disperati in luoghi di segregazione, l’autore dà voce ad alcuni di loro, cerca di immaginarne le sofferenze, i pensieri, gli affetti, ridà loro dignità di uomini. 

Mi pare di vederlo ascoltare le voci che escono dai fascicoli accumulatisi nelle stanze del carcere di Montecassino e che pretendono ascolto parlando attraverso i documenti lì conservati. Ne intuisco  l’imbarazzo nel dover scegliere a chi prestare ascolto, quali storie raccontare, non potendo nominarle tutte. 

Il suo sforzo è però stato premiato. Il libro di Buffa ridà voce e dignità umana a ombre calpestate dalla furia della storia. 

La memoria dei giusti

In alcuni casi, si tratta di ombre di uomini giusti, di antifascisti che si sono ribellati al regime e hanno sacrificato la loro vita in nome di un ideale di libertà, ma che non hanno vissuto abbastanza per poter vedere almeno la fine del fascismo e della guerra. 

A causa delle pessime condizioni igienico-sanitarie, del vitto scarso, dell’assenza di medicinali, delle cure mediche negate o tardive, numerosi sono i confinati morti per malattia: di tubercolosi come Ernesto Bicutri, aiutato da Sandro Pertini; di appendicite come i milanesi Mario Brambilla e Ferdinando Perencin; di ulcera come Marino Semerari di Castel Maggiore in provincia di Bologna; di mastoidite infetta come il friulano Luigi Grossutti, detto “Gigino lo stipettaio”; di peritonite come Giuseppe Piancastelli, il giovane di Imola per cui Umberto Terracini e gli altri comunisti imposero il trasferimento in ospedale. 

Altri sono riusciti a lasciare Ventotene ma sono morti altrove poco prima della Liberazione, fucilati dal plotone di  esecuzione come accadde al triestino Mario Maovaz, il bibliotecario di Ventotene, ucciso il 28 aprile 1945; morti  in una marcia di trasferimento nel gelo dell’inverno germanico, come accadde al triestino Giovanni Bidoli; deceduti in  un campo di concentramento dopo essere stati torturati ferocemente, come l’anarchico Giobatta Domaschi che, liberato tra gli ultimi da Ventotene per essere nuovamente internato nel campo di Renicci, riuscì di nuovo a fuggire, a partecipare alla Resistenza, per poi finire i suoi giorni nel lager di  Dachau. Altri furono uccisi dalla guerra, come l’anarchico Gino Lucetti che, dopo 17 anni di galera per aver attentato al duce, appena liberato dagli americani, morì sotto un bombardamento pochi giorni dopo aver lasciato il carcere di Santo Stefano.  

La loro morte, sebbene crudele, ha però avuto un senso, è stato l’esito di una scelta volontaria di cui conoscevano e accettarono le possibili conseguenze. 

La loro voce si alza all’unisono nel coro di pagina 193 che introduce alle loro storie: parlano con un “noi” perché si sono sentiti uniti in uno sforzo collettivo di cambiamento. Il loro destino è eroico, la loro memoria coltivata e onorata. 

A loro è dedicata la seconda parte del volume, quella in cui si parla del confino di polizia, anche se qualcuno di loro muore anche nel carcere di Santo Stefano, come il partigiano greco Caputsos, malato del morbo di Pott, trascinato a morire lontano dalla sua terra dagli occupanti italiani e accudito maternamente dall’anarchico Giuseppe Mariani nell’infermeria del carcere già liberato dagli Americani, in cui nel 1944, restano i criminali comuni, gli anarchici e i malati troppo gravi. E proprio dalla sua voce è tratto il titolo del volume (p. 105)

“Fine pena mai”

Diversa è la morte degli ergastolani che muoiono a Santo Stefano, sepolti nella “tomba dei vivi” – come la definì Settembrini – dove sono giunti perché condannati per delitti anche feroci o perché giudicati indomabili e irriducibili e chiusi nel quarto anello, il “tetracomio”. 

Anche a Santo Stefano si muore di malattia, per il freddo, l’umidità, l’assenza di cure, ma si muore anche per le violenze, uccisi dalle “battiture” delle guardie, come accadde a Rocco Pugliese, il cui caso fu denunciato da Pertini in Assemblea Costituente, o per omicidi camuffati da sucidi, come nel caso di Gaetano Bresci, oppure per disperazione con suicidi veri come nel caso di Giovanni Andrea, la cui innocenza poteva essere provata per la confessione dei veri colpevoli, ma che non ottenne ascolto e nessuna revisione del processo (p. 57). 

Sono diciotto le storie individuali e due collettive (di evasione e di rivolta) raccontate nella prima parte del libro e alcune davvero tragiche. Il loro è un canto individuale e solitario come si vede nei distici che introducono alle singole storie. La loro pena è senza fine, la loro morte disperata, e, per alcuni, non ha lasciato eredità d’affetti. 

Tra queste storie colpiscono allo stomaco quelle degli innocenti o dei presunti tali, reclusi e morte a Santo Stefano senza che la loro richiesta di giustizia fosse stata accolta. Per loro non c’è conforto che possa lenire il dolore e non c’è ammenda possibile: è una ferita che continuamente si riapre in chi ha una coscienza civile. Siamo tutti coinvolti, come cantava De André, nessuno si senta escluso.

Mi ha particolarmente commosso la storia di Rocco Mediati, morto a Santo Stefano il 26 febbraio 1952, che ha sempre proclamato la sua innocenza senza essere creduto e che, come scrive Buffa, oggi è l’unico fra i detenuti sepolti nel cimitero sull’isola ad avere un parente, un nipote, che gli porta un fiore. 

Grazie alla lista a suo tempo stilata da Luigi Veronelli, il nipote Rocco ha ritrovato il nonno ingiustamente condannato di cui porta il nome e che non ha mai conosciuto, essendo nato nel 1956. Ogni anno dal 2013, insieme all’Associazione “Liberi dall’ergastolo”, si reca sull’isola di Santo Stefano per strappare erbacce, riordinare sassi, depositare un fiore in memoria anche per chi è stato dimenticato. Questo gesto riscatta la memoria di Rocco, come il libro di Buffa fa con la memoria di tutti i 18 galeotti che si presentano sulla scena e raccontano la loro storia, con il loro numero di matricola e con alcune righe in cui racchiudono la sintesi della propria vita in poche righe.  (p. 123)

“Liberi dall’ergastolo”

Ma anche tralasciando la possibilità di errori giudiziari, l’ergastolo è comunque una pena crudele, ingiusta, che non merita neppure il più incallito dei criminali: perché si resta uomini nonostante l’errore commesso, perché non si può giudicare una vita umana sinché non si è conclusa, perché nessuno è legittimato ad ancorarla a un singolo gesto, anche se “disumano”, bloccando il flusso esistenziale in quell’unica sequenza delittuosa, negando lo sviluppo della personalità, l’emergere di una coscienza, la possibilità di un cambiamento e di un riscatto morale. 

Lo spiegano bene le voci di Benigno Pilia (p. 135) e di Pietro Messina (p. 131). 

Per questo l’ergastolo è una pena disumana, come sapeva bene Eugenio Perucatti che fu direttore del carcere di Santo Stefano fra il 1952 e il 1960. Anche la sua è una storia unica e merita di essere raccontata. Diventato direttore, si traferisce sull’isola di Santo Stefano con l’intera famiglia e con i suoi dieci figli. Appena arrivato, consulta i fascicoli dei galeotti alla ricerca di elementi che consentano la richiesta di grazia o la revisione del processo; legge alle guardie l’art. 27 della neonata Costituzione repubblicana (scritta anche da ex confinati di Ventotene) secondo cui le pene non possono essere disumane e devono tendere alla rieducazione; fa costruire una prima centrale elettrica, una foresteria per i parenti in visita, apre le celle, impiega gli ergastolani nel lavoro e nella gestione della comunità carceraria. Cattolico fervente, crede nella possibilità di un ravvedimento anche per le coscienze più ottuse e restie. Costruisce un cercare modello che dà molto fastidio ai politici del tempo che prendono la scusa di un’evasione per cacciarlo e imporre una restaurazione. 

Straordinaria la sua risposta all’evaso che gli scrive per scusarsi dei problemi causatigli e per denunciare collusioni (leggere a p. 155).

A Perucatti fa da contraltare Marcello Guida, il direttore fascista della colonia confinaria di Ventotene, responsabile delle morti di incuria qui raccontate. La continuità fra Stato fascista e Repubblica lo portò ad essere questore a Milano ai tempi della strage di Piazza Fontana, quando disse che l’anarchico Pinelli si era suicidato perché i suoi alibi erano crollati. Questa la ragione per cui Pertini, anni più tardi in visita a Milano, si rifiutò di riceverlo.

Pertini ha una memoria lunga, non dimentica ciò che non va obliato e agisce di conseguenza. Noi dovremmo fare altrettanto e, per questo compito, il libro di Buffa è un viatico importante. 

Secondo Walter Benjamin è proprio la “cura della memoria” che definisce il compito (anzi il dovere) dell’Angelo della storia, il quale, con le ali spalancate, guarda fissamente verso il passato, verso il cumulo di macerie e di sofferenze che si accumula ai suoi piedi, mentre una tempesta inarrestabile lo trascina inesorabilmente verso un futuro ignoto a cui volta le spalle. 

Ringrazio quindi Pier Vittorio Buffa per averci aiutato a ricordare.

Una sola nota finale: leggendo il libro, potrebbe sembrare che il confino e la galera abbiano coinvolto solo l’universo maschile. Solo in una riga si fa cenno alle confinate. Di donne al confino di Ventotene ce n’erano parecchie (tra cui le più note erano Camilla Ravera e Adele Bei). La loro vita non era meno dura, anche se sembra che nessuna sia morta lì. Questa è però una domanda che rivolgo all’autore.

Per quanto riguarda il carcere, Santo Stefano era un reclusorio maschile ma alcuni carceri femminili erano altrettanto dure e, per le peculiari caratteristiche fisiologiche delle donne, ancora più difficili da sopportare, come accadde anche nei lager. Servirebbe una nuova “Spoon river”, questa volta declinata al femminile, che mi piacerebbe davvero provare a scrivere. 

Pisano (No), ottobre 2017