Istantanea » Stati Uniti http://buffa.blogautore.repubblica.it Just another Blogautore.repubblica.it weblog Wed, 11 Jul 2018 15:14:30 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=3.8.27 Vecchie parole, nuove emozioni http://buffa.blogautore.repubblica.it/2008/08/26/lasciarsi-cullare/ http://buffa.blogautore.repubblica.it/2008/08/26/lasciarsi-cullare/#comments Tue, 26 Aug 2008 10:41:53 +0000 http://buffa.blogautore.repubblica.it/2008/08/26/lasciarsi-cullare/  ted-kennedy-3.jpg

Il discorso di Ted Kennedy alla convention democratica di Denver che incoronerà Barack Obama mi ha emozionato.

Forse mi ha emozionato perché parla un uomo a cui i medici danno poco da vivere. Parla con slancio ed energia, usa la retorica del politico americano navigato, tocca tasti e corde che sanno uscire dalla grande sala della convention.

Forse mi ha emozionato perché il momento in cui seppi dell'assassinio del fratello presidente è rimasto impresso nella mia memoria di bambino e quelle di Denver sono probabilmente le ultime parole pubbliche di un uomo di quella generazione dei Kennedy.

Forse, ad emozionarmi, sono state le ultime parole dell'intervento di Ted Kennedy. "The work begins anew. The hope rises again. And the dream lives on" (Il lavoro ricomincia. La speranza risorge. E il sogno continua).

Sono versi, perché di questo si tratta, che si possono bollare come un vuoto esercizio di retorica o dai quali ci si può lasciare cullare pensando non soltanto al sogno dei democratici americani.

Sono comunque parole e concetti che fanno parte della storia politica dei Kennedy. Lo stesso Ted ne usò di simili quasi trent'anni fa, quando nel 1980 perse le primarie contro Jimmy Carter. "The work goes on, the cause endures, the hope still lives, and the dream shall never die" (Il lavoro va avanti, la causa resiste, la speranza vive ancora, e il sogno non morirà mai).

Ecco i brani dei due discorsi

1980 1980.mp3

2008 2008.mp3

Più ritmico quello di oggi, più secco quello di allora.

Comunque quando, dopo aver ascoltato il discorso di ieri, ho scoperto che il vecchio senatore aveva citato se stesso mi sono convinto che sono state proprie quelle parole ad emozionarmi.

Si, mi sono lasciato cullare. E qualche volta fa bene.

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Ritorno a casa http://buffa.blogautore.repubblica.it/2007/07/09/ritorno-a-casa/ http://buffa.blogautore.repubblica.it/2007/07/09/ritorno-a-casa/#comments Mon, 09 Jul 2007 15:11:54 +0000 http://buffa.blogautore.repubblica.it/2007/07/09/ritorno-a-casa/ roadhome.jpg

Istantanea di una pagina di giornale. Non di un giornale qualsiasi, è il New York Times. E non di una pagina qualsiasi, è quella in cui è scritto che gli Usa devono lasciare l'Iraq, trovare subito la strada di casa, la "road home".
Sono due i motivi per cui mette conto soffermarsi su questa pagina per qualche minuto e andare oltre la semplice lettura.
Il primo è per la chiara ma forte semplicità delle argomentazioni. Gli Stati Uniti devono lasciare l'Iraq perché è stata un'invasione sbagliata, perché non controllano il territorio, perché la democrazia è ancora lontana, perché non devono più morire americani, perché si è dato spazio e fiato ad Al Qaeda, perché si sono distolte forze dall'Afghanistan dove i terroristi potevano essere combattuti con successo. Considerazioni fatte migliaia di volte in questi anni, in tutto il mondo, e alle quali poco a poco, sono arrivati anche molti che hanno applaudito i marines il giorno della caduta di Bagdad. Oggi, leggerle una dietro l'altra su uno dei giornali più autorevoli del mondo sotto il titolo "Ritorno a casa", non può che dare sollievo. Ma anche procurare rabbia: le ultime statistiche dicono che dal 19 marzo 2003 in Iraq sono morti 70 mila iracheni, 3586 soldati americani, 284 soldati di altri paesi.
Il secondo è per la la forma con la quale il giornale ha preso posizione. Un articolo lungo ma del quale, secondo la migliore tradizione del giornalismo americano, si capisce tutto dalle prime righe, quelle diventate l'oggetto dell'istantanea di oggi. Una lezione di chiarezza sulla quale è bene riflettere qualunque mestiere si faccia. E anche come semplici cittadini che devono pretendere da chi li governa e da chi li informa messaggi netti e, appunto, chiari.

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C’è figlio e figlio http://buffa.blogautore.repubblica.it/2007/04/12/ce-figlio-e-figlio/ http://buffa.blogautore.repubblica.it/2007/04/12/ce-figlio-e-figlio/#comments Thu, 12 Apr 2007 16:00:41 +0000 http://buffa.blogautore.repubblica.it/2007/04/12/ce-figlio-e-figlio/ Negli Stati Uniti sta facendo scandalo e in Italia ne ha dato notizia, tra gli altri,rebecca1.jpg
il Corriere della Sera. E' la tesi sostenuta da Rebecca Walter, nel suo ultimo libro Baby love. La scrittrice americana, mamma adottiva di Solomon (partorito dalla sua ex compagna Me'shell Ndegéocello) e mamma naturale di Tenzin, ha fatto un ragionamento semplice e dirompente: l'amore per un figlio adottivo non è intenso come quello che si sente per il sangue del proprio sangue. E ha esemplificato: per Tenzin sarei pronta a morire, per Salomon non penso che farei lo stesso.
Quando si toccano l'amore filiale insieme alla vita e alla morte si va dritti al cuore di tutti. Allora guardiamo negli occhi questa donna dai modi spicci e ragioniamo sulle sue parole.
Io ho due figli, come dire, "di sangue", e per loro sarei pronto a morire. Se accanto a loro ci fosse un figlio adottivo forse, come per la Walker, non sarebbe la stessa cosa, proverei un qualcosa di diverso e, probabilmente, non sarei pronto a morire. Ma me ne vergognerei e mi obbligherei a offrire ugualmente il petto per un motivo molto semplice.
Nel momento in cui si decide di adottare un figlio immagino (perché personalmente non mi è capitato) che ci si debba impegnare con lui, e con se stessi, a considerarlo un figlio a tutti gli effetti. Uguale a figli naturali che si hanno o si avranno, uguale ad altri figli adottivi.
Un impegno verso di lui e verso noi stessi che ci impone di controllare il nostro comportamento più spontaneo e di onorare la parola data.
Anche se non vieni dal mio sangue, anche se preferirei non farlo, sono pronto ugualmente a morire per te.
Se non ce la sentiamo di poter arrivare a questo vuol dire che adottare non è la nostra missione.

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